Diritto penale e Processuale penale
Una loggia massonica?
Io e Pietro Verde eravamo cresciuti insieme, giocando a calcio da bambini nel cortile del nostro palazzo. Da preadolescenti ci provavamo con le ragazzine, nei giardinetti dall’altra parte della strada. Per la verità il plurale è una esagerazione: Pietro le avvicinava e io mi prestavo a fargli da divertita spalla, sperando di imparare le sue lezioni di vita per vincere la timidezza. Lui veniva a casa mia a mangiare le frittelle che preparava mia mamma. Io andavo a casa sua, dove sua madre urlava sempre e suo padre la faceva smettere a suon di schiaffi.
Dopo la terza media, le nostre strade si erano separate e avevamo smesso di frequentarci. Io mi ero iscritto al liceo scientifico e Pietro aveva trovato lavoro in un’officina meccanica del quartiere. Benché continuassimo ad abitare nello stesso condominio ci eravamo persi di vista. Il custode del palazzo mi raccontava che lui tornava spesso a casa la sera ubriaco e che frequentava un gruppo di ragazzi che assumevano sostanze stupefacenti di ogni tipo. Era passato dal fumo alla cocaina in meno di un anno.
Infine, dopo quindici anni di separazione e oblio, ero diventato il suo avvocato penalista, più che altro sbigottito spettatore di un angosciante andirivieni tra casa sua, con moglie e due bambini, e tutti gli istituti penitenziari del milanese. A fregarlo non era mai la gravità dei reati che commetteva, quanto il numero dei precedenti iscritti nella fedina penale che impedivano l’applicazione dei benefici di leggi, compresa la sospensione condizionale della pena.
In un gelido pomeriggio di gennaio mi trovai costretto, per mia sfortuna, ad assistere alla pietosa sceneggiata dell’esecuzione, ai danni della sua famiglia, di uno sfratto per morosità. Avevo cercato in ogni modo di convincerlo a scendere a patti con l’anziana e ricchissima padrona di casa, consigliandogli di rilasciare bonariamente l’abitazione in cambio di una lauta buonuscita da reinvestire in un alloggio ALER.
Aveva preferito giocarsi tutte le carte per rimanere il più a lungo possibile barricato all’interno dell’appartamento: dapprima chiedendo il termine di grazia per sanare la morosità, poi invocando l’aiuto del Comune di Milano con i fondi della morosità incolpevole, successivamente, in occasione del terzo accesso dell’ufficiale giudiziario, facendosi trovare a letto, col termometro sotto l’ascella, e rifiutandosi di farsi trasportare in ambulanza in ospedale e infine minacciando di abbandonare in casa il suo cane, privo di cibo e di cure. Per fortuna aveva rifiutato di usare i bambini come schermo a protezione della sua disperata difesa.
Il giorno dell’esecuzione forzata, sulla soglia di una casa divenuta un fortino inespugnabile da più di un anno, si era materializzato un vero e proprio manipolo di incursori: l’ispettore di polizia, il fabbro, il medico delegato dall’INPS per accertare lo stato di salute dell’inquilino e addirittura la figlia della proprietaria, disposta a prendersi cura di Rolly, un tenero cucciolo di pastore tedesco. L’atto finale della tragicommedia era dunque stato preparato con cura certosina dalla controparte, allo scopo di azzerare i rischi di un nuovo rinvio.
Eppure non riuscivo a convincere il mio amico ad arrendersi, nemmeno davanti al pianto disperato dei suoi due bambini e alla fuga di sua moglie, che aveva preparato in fretta e furia una valigia e si era fatta venire a prendere in auto da suo padre, portando con sé i piccoli.
Pietro insisteva nell’inveire contro la “disumana” padrona di casa, come un cavaliere solitario che si ostina a combattere una battaglia già persa contro i suoi nemici per difendere i pochi metri quadrati nei quali ha deciso di mettere radici.
Gli posi le mani sulle spalle e lo guardai negli occhi. In fondo nonostante le nostre opposte scelte di vita continuavo a vederlo come un fratello. «Non fare così, Pietro. Devi rassegnarti. Non puoi perdere la tua famiglia. Vai da tua madre, che ti aspetta a casa».
Ma il suo sguardo, iniettato di sangue, mi suggerì di ammutolirmi all’istante «E’ tutto quello che sai dire? Ti sei arreso anche tu all’ingiustizia? Ti pare giusto che una vecchia vedova, più morta che viva e ricca sfondata metta sulla strada una famiglia che vorrebbe pagare ma che semplicemente non può?».
«Che vuoi…questa è la legge». Biascicai senza convinzione.
Ottenni l’unico effetto di accrescere la sua collera. «Non hai mai detto una parola a mio favore, Ale, né in udienza, né qui adesso. Io ti credevo un avvocato con le palle. Invece ti sei fatto fregare da quello lì» indicò l’avvocato di controparte «non ti sei neanche accorto che quello ti guarda con superiorità, come se volesse prenderti per il culo. Almeno adesso, qui in casa mia, mi dai la soddisfazione di dire in faccia a quel bastardo una sola parola a mio favore?».
Il mio sguardo cadde sulla statuaria figura dell’avvocato Pedroni, un uomo corpulento di sessanta anni, col sigaro perennemente tra le labbra e l’aria sorniona.
Era la mia bestia nera. Contro di lui avevo già perso due cause. La prima volta lui aveva fatto cadere in contraddizione un mio testimone in una causa di separazione giudiziale dei coniugi. La seconda volta aveva fatto dichiarare prescritto il credito del mio cliente evidenziando che la mia diffida di pagamento era priva di firma e di data certa. In entrambe le occasioni, alla fine, mi aveva sbirciato con un ghigno demoniaco ripetendo la stessa frase. «Devi stare più attento, giovanotto». “Devi stare più attento giovanotto…”. Gesù, che rabbia mi faceva quel tono caustico e umiliante. Avrei voluto prenderlo a schiaffi.
La verità era che, incomprensibilmente e del tutto irragionevolmente, le parole di Pietro mi avevano ferito. Avevano fatto breccia nella fragile corazza della mia identità professionale, ancora tremebonda. Forse, all’epoca, io non potevo ancora contare su una vera e propria autostima, benché avessi già trenta anni e potessi vantare un apprezzabile curriculum di cause vinte. Avrei voluto avere più grinta, più aggressività, più capacità di zittire le mie controparti.
Così mi sentii in dovere di mostrare i muscoli e mi produssi in una ridicola esibizione. Mi piazzai a gambe larghe davanti all’avvocato di controparte. «Una cosa va detta!». Esclamai a voce alta. «Tutto questo è semplicemente ridicolo! Dovete eseguire uno sfratto, non vincere una guerra. Pretendo rispetto per il mio cliente. Forse a questo mondo un uomo senza denaro è un uomo senza dignità? Avanti di questo passo trasformeremo la vita in una perenne guerra dei ricchi contro i poveri».
L’avvocato di controparte mi trafisse con un sorriso irridente. Tutti gli altri presenti finsero di non avere sentito. E io mi sentii davvero un imbecille: ero un avvocato, diamine, non un teatrante o un manifestante di piazza.
Pietro sembrò apprezzare il mio sproloquio e mi batté una mano sulla spalla. «Almeno oggi una parola a mio favore l’hai detta». Poi mi fece segno di seguirlo lungo il corridoio, ingombro di borsoni e valigie, mentre il fabbro iniziava ad operare sulla serratura della porta d’ingresso. Il mio amico aprì l’anta di un armadio, infilò le mani sotto una solitaria coperta di lana e ne estrasse una busta bianca che mi mise in mano. «Io ho un onore, Ale, qui dentro c’è un assegno che copre un terzo del mio debito. Spero che basti ad evitarmi il pignoramento del quinto dello stipendio».
Gli feci un sorriso di approvazione. «Molto bene. Ottima idea!». E feci per restituirgli la busta, ma lui scosse la testa. «Non voglio averci più niente a che fare con quella aguzzina. Per favore dagliela tu la busta. Fammi almeno questo piacere!».
Accettai e mi congedai da lui, raccomandandogli di controllare la sua collera e di non fare pazzie.
Prima di lasciare l’abitazione consegnai la busta bianca all’avvocato Pedroni e mi dileguai nel buio delle scale, sperando di dimenticarmi presto di quel melodrammatico pomeriggio.
Quando un giovane poliziotto, cinque mesi dopo, mi mise in mano quell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari, con stampigliato il mio nome, io reagii con distrazione e noncuranza. Strinsi la mano dell’agente di polizia e siccome quello mi osservava con sguardo solidale gli sorrisi. «Vediamo un po’ che cosa combinano quei simpaticoni dei miei clienti. Si tratterà di rapina? Di resistenza a pubblico ufficiale? Di furto di roba di nessun valore? Magari mi capitasse ancora un omicidio!».
Il chiudersi della porta di studio ci separò prima che lui potesse rispondermi.
Nemmeno un minuto dopo fui costretto ad accasciarmi su una sedia e a chiamare in aiuto il mio amico e socio di studio Claudio. Avevo cominciato a sudare freddo e la mia bocca, che si era spalancata per la sorpresa, non ne voleva sapere di richiudersi.
Il mio nome, in quell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, non era associato all’avvocato nominato come difensore di fiducia o di ufficio ma a quello dell’indagato.
Venivo accusato di aver minacciato l’ottantenne Signora Palmira Virzì, la padrona di casa di Pietro.
Tentai di leggere meglio, anche se già stringevo i fogli con dita tremanti. Mi concentrai sul capo d’imputazione e compresi l’assurda ricostruzione dei fatti esposta dal pubblico ministero. Il giorno dell’esecuzione dello sfratto ai danni del mio cliente, Pietro Verde, per la pubblica accusa, di mia iniziativa, avrei consegnato all’avvocato di controparte una busta bianca con all’interno una foto ritraente, in bella mostra, tre bossoli allineati. Su un foglio bianco, dietro alla foto, erano scritte queste parole:
La colpa si lava col sangue
Firmato: La loggia massonica segreta “Sangue per la vera giustizia”
Mi presi la testa tra le mani e proruppi in un urlo lancinante che fece sobbalzare Claudio.
«Calmati, Ale. Cosa ti succede? Sei irriconoscibile!».
«Una cosa pazzesca, leggi qua. Mi si accusa di minacce. Roba da non credere, Pietro me la pagherà cara!».
Il mio amico lesse e rilesse quei fogli con una strana smorfia. «Assurdo. Veramente assurdo…Tu che fai queste cose…Ma è solo un atto d’indagine. Avrai modo di far accertare la tua estraneità ai fatti». Si sedette accanto a me, con aria comprensiva. «Non posso immaginare che tu abbia fatto questo. Vuoi spiegarmi come si sono realmente svolti i fatti?».
Fidandomi della sua assoluta competenza giuridica, con la voce che mi tremava per l’affanno, ansimai un resoconto dettagliato e precisissimo dell’accaduto. Indugiai perfino su dettagli irrilevanti, per timore di non fornire un quadro esaustivo.
«Te l’ho sempre detto, Ale, dovresti selezionare meglio i tuoi clienti. Comunque non hai nulla da temere. Hai venti giorni da oggi per chiedere l’interrogatorio. Fornirai al pubblico ministero un resoconto completo e lui ti crederà. Che ragione avresti avuto di minacciare quella donna? È ovvio che l’autore della minaccia è questo Pietro Verde!».
Feci notare a Claudio che in quella assurda vicenda non tutti gli elementi circostanziali erano a mio favore. Nel senso della mia colpevolezza deponevano lo sfogo verbale al quale mi ero lasciato andare appena un minuto prima della consegna della busta e la mia rivalità con l’avvocato di controparte.
Mi chiusi nella mia stanza a compulsare con rabbia e frenesia il codice penale commentato, quello gigantesco e dalla copertina verde.
Avvampai nel constatare che il reato di minaccia che mi veniva ascritto era pluriaggravato. Era configurabile la gravità del male prospettato alla vittima, in sostanza la morte, e la circostanza che il comportamento intimidatorio era stato compiuto avvalendosi della forza intimidatrice della presunta appartenenza ad una associazione segreta, la fantomatica loggia massonica. L’articolo 339 parlava chiaro, a proposito.
Entrambe le aggravanti rendevano il reato, non solo punito con pena detentiva ma anche procedibile d’ufficio. Dunque non mi sarebbe stato possibile evitare il processo neppure risarcendo il danno alla vittima del reato, in cambio della remissione della querela.
Chiusi di scatto il codice e digrignai i denti come una belva in gabbia. Afferrai il cellulare e provai a chiamare quel disgraziato di Pietro, ma lui non rispose. Non ottenni risposta nemmeno quando mi decisi a chiamarlo sul fisso, presso la madre, nella casa di famiglia in cui si era rifugiato.
Mi sovvenne uno dei mantra che zio Arturo aveva scolpito nella mia mente, con la sua voce profonda e carismatica: “Mai prestarsi a consegnare buste o pacchi per conto dei clienti, senza essere certi del loro contenuto”. Il suo volto, quando mi aveva sillabato quell’ammonimento, era risultato persino più credibile del solito.
Maledetto ingenuo che non ero altro, come avevo fatto a dimenticarmene? Me la presi con la mia faccia da bambino che mi rendeva una preda fin troppo facile per gli avvoltoi che si libravano nel mio spazio vitale. Sognavo di essere un avvocato agguerrito, pronto a battersi alla morte in udienza per la difesa dei diritti dei clienti, e non ero altro che un gattino da salotto con le unghie spuntate.
Sferrai un violento pugno contro il piano della scrivania, tanto forte che fui costretto a medicarmi la mano.
Quando ebbi recuperato la calma, telefonai a zio Arturo, narrandogli le mie vicissitudini e anticipandogli che l’avrei nominato mio difensore di fiducia.
«Zio, credi che dovrei autosospendermi dall’ordine degli avvocati?».
«Ma sei impazzito?».
«Credo di sì. Non avrei mai immaginato che potesse succedermi una cosa simile…finire nella trappola di un cliente!».
«Tu hai ricevuto la notifica di un semplice atto d’indagine, non di una sentenza di condanna. Difenditi al meglio, vedrai che ti crederanno».
«Lo credi davvero?».
«Lo credo davvero. Sta tranquillo. E poi, se ti sospendi dall’ordine rinuncerai a sfidarmi in corte d’assise d’appello. Non sia mai. Voglio avere un avversario degno».
Riuscì a strapparmi un sorriso, oltre ad essermi di conforto.
Dopo quella conversazione, decisi di andare a casa della madre del mio pseudo amico. Volevo gridare in faccia a Pietro ciò che pensavo di lui. Avrebbe dovuto recarsi immediatamente in procura a scagionarmi, tanto la sua fedina penale era già compromessa.
Non persi tempo. Indossai la giacca e mi precipitai in strada.
Fu Pietro in persona ad aprirmi la porta di casa.
«Che vuoi, Ale?».
«La loggia massonica segreta sangue per la vera giustizia… ti dice qualcosa?».
Lui sgranò gli occhi, inebetito. «Non capisco».
Gli sventolai davanti agli occhi i quattro fogli che mi avevano notificato qualche ora prima. «Sono accusato di minacce di morte. Come se la lettera che mi hai messo in mano il giorno dello sfratto l’avessi scritta io».
Lui si coprì il volto con le mani. «Oh, Gesù. Ma tu non c’entri niente…».
«Ne sono convinto anche io. Mi avevi detto che nella busta c’era un assegno».
Pietro improntò il volto a un’espressione contrita. «Non immaginavo che ne nascesse un processo penale, né che ti avrebbero accusato. Ero impazzito per la rabbia. Non ho ragionato!».
Contrassi la mascella, in un violento spasmo di determinazione. «Voglio che domani mattina tu vada in procura, a parlare col pubblico ministero, per dirgli la verità. Voglio che ti accusi di quanto è accaduto».
Lui scosse la testa e fece un passo indietro. «Mi dispiace, ma non posso farlo».
Gli puntai contro la luce furente dei miei occhi. «Che cosa? Cosa hai appena detto?».
Lui assunse un’aria supplice. «Mi devi scusare, Ale. Ho iniziato a scontare in affidamento in prova al servizio sociale una pena di quattro anni. Se mi accusano di un altro reato mi fottono. Mi rimettono in carcere. Tu, invece, sei incensurato. Non ti possono fare niente. Te la caveresti con una pena sospesa…».
Sventolai contro il suo volto il mio dito indice. «Tu sei un infame, Pietro. Mi vergogno di averti avuto come amico. Sei un delinquente della peggiore specie. Ti farò ributtare dove meriti di stare…in carcere!».
La madre di Pietro si materializzò sulla soglia del salotto. «Alessio, ma perché ti rivolgi così al tuo amico? Mio figlio in fondo è un bravo ragazzo».
Io strinsi i pugni, facendo uno sforzo immane per controllarmi. «Signora…ma mi faccia il piacere!».
Sbattei la porta con violenza e me ne andai.
Per cinque notti non riuscii quasi a dormire. Mi rigiravo nel letto, come un leone ferito, ma non riuscivo a prendere sonno. Claudia era preoccupatissima e aveva allineato sul mio comodino quattro barattoli di melatonina. «Amo, prendine un paio. Sono integratori, mica psicofarmaci. Hai bisogno di ristabilire il ciclo del sonno».
Io ero provato, con due occhiaie nere impressionanti, ma preferii grugnire una protesta, afferrare il cuscino e voltarmi dall’altra parte, fingendo d’essere pronto a dormire.
Nel tardo pomeriggio del sesto giorno i miei tormenti ebbero fine in modo tanto meritato quanto sorprendente, quando ormai mi stavo preparando a scrivere al pubblico ministero che mi aveva inquisito.
Alle sei del pomeriggio ricevetti una telefonata. Era un ispettore di polizia con cui avevo fatto lunghe chiacchierate al bar del palazzo di giustizia e che mi aveva in simpatia.
«Avvocato Mayer. Le volevo dare in via confidenziale un’ottima notizia. Il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione dell’accusa nei suoi confronti».
Ebbi un fremito di gioia, ma anche di stupore. «Ispettore, la ringrazio. Lei è molto gentile ma sono sorpreso. Pochi giorni fa ho ricevuto la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini. Mi rallegro dell’evoluzione favorevole, ma non la comprendo».
«C’è stata una svolta inattesa. Ho verbalizzato io la deposizione del difensore della signora Virzì, che l’ha scagionata completamente, avvocato».
Il mio stupore crebbe a dismisura. “L’avvocato Pedroni?”. Pensai. “Il mio rivale più odiato…la mia bestia nera”.
Ritenni di doverlo ringraziare. Sapevo che il collega aveva l’abitudine di fare colazione alle otto e trenta del mattino in un bar di Via Orti, nei pressi del palazzo di giustizia. L’avevo visto svariate volte, oltre la vetrata del locale, passando di lì.
Decisi di andarci il mattino successivo e lo trovai seduto al solito tavolino, immerso nella lettura delle carte di un fascicolo, con il sigaro tra le labbra.
Mi avvicinai a lui con un sorriso promettente e il collega sollevò di scatto gli occhi dalle carte. «Ciao, giovanotto, qual buon vento?».
«Credo di doverti ringraziare, collega. Sono stato vittima di un’accusa ingiusta e so che hai testimoniato a mio favore».
Lui scosse la testa. «Non mi devi ringraziare. Ho fatto solo il mio dovere di cittadino».
Lo fissai negli occhi. «Posso chiederti come hai saputo la verità o se l’hai solo immaginata?».
«Il giorno dello sfratto ho visto il Verde prenderti da parte. Temevo stesse escogitando qualcosa e vi ho seguiti. Ho sbirciato oltre l’angolo del muro e ho visto il tuo cliente consegnarti la busta e l’ho anche sentito dirti che dentro c’era un assegno. Ho lasciato quella busta alla figlia della padrona di casa e me ne sono andato subito dopo di te. Solo qualche giorno fa ho saputo che nella busta non c’era un assegno e che la Signora Virzì aveva fatto querela, altrimenti sarei intervenuto prima».
Lo guardai con ammirazione. «Caspita, hai il doppio dei miei anni ma sei molto più sveglio di me».
«Questo lo penso anch’io».
Incassai il colpo e non smisi di essere gentile. «Posso offrirti qualcosa?».
«Non ti disturbare. Ho già fatto colazione. E ora, se mi permetti, devo riprendere la lettura di queste carte. Oggi mi aspetta la discussione di una causa».
«Ma certo». Mi produssi in un goffo gesto di saluto.
Le sue ultime parole mi trafissero, colpendomi alla sprovvista. Le pronunciò senza sollevare gli occhi dalle carte. Furono le solite parole e mi trapanarono il cervello con diabolica puntualità, tanto che pensai di essere stato sconfitto un’altra volta, la quarta, dalla mia bestia nera. «Devi stare più attento, giovanotto».
Minacce
Il reato di minacce è previsto, punito e disciplinato dall’art. 612 c.p. che così testualmente recita: “chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino ad €1.032,00.
Se la minaccia è grave o è fatta in uno dei modi indicati nell’art. 339, la pena è della reclusione fino a un anno.
Si procede d’ufficio se la minaccia è fatta in uno dei modi indicati nell’art. 339, ovvero se la minaccia è grave e ricorrono circostanze aggravanti ad effetto speciale diverse dalla recidiva, ovvero se la persona offesa è incapace, per età o per infermità”.
Commette il reato di minacce colui che tiene un comportamento intimidatorio tale da determinare nella vittima un turbamento psichico suscettibile di minare in tutto o in parte la sua capacità di autodeterminazione. Secondo la giurisprudenza dominante la norma che disciplina il reato in parola tutela la libertà psichica e morale del soggetto passivo.
Il reato non sussiste se non vi è la prospettazione, da parte dell’autore del comportamento, di un danno ingiusto. Il danno prospettato alla vittima di reato è ingiusto non solo quando è illecito, bensì anche quando il fine formalmente perseguito dall’autore della minaccia sarebbe lecito ma tuttavia viene perseguito per scopi differenti da quelli per cui è previsto il potere esercitato.
Il reato è di norma punito con pena pecuniaria ed è procedibile solo a querela della persona offesa dal reato.
Tuttavia la fattispecie criminosa è sanzionata con pena detentiva ed il reato è perseguibile d’ufficio (seppur con le precisazioni di cui in prosieguo) nei seguenti casi:
-
Se la minaccia è grave
Secondo costante giurisprudenza la minaccia è grave quando è grave il male prospettato alla vittima (in primis, come intuibile, la morte o una rilevante menomazione dell’incolumità fisica o psichica della vittima stessa).
La minaccia è altresì ritenuta grave alla luce delle circostanze obiettive del comportamento intimidatorio nonché delle condizioni soggettive dell’autore del comportamento intimidatorio e della parte lesa.
Possiamo sostenere, in tal senso, che la minaccia sarà da ritenersi grave allorché, alla luce dei citati parametri, la stessa possa appalesarsi quale particolarmente credibile e plausibile e, viceversa, priva dei caratteri della gravità nel caso inverso.
A mero titolo esemplificativo pare ragionevole ritenere grave, in quanto credibile e plausibile, la minaccia di morte fatta da una guardia giurata in possesso di regolare arma da fuoco ad un proprio debitore già in precedenza soggetto a vessazioni fisiche e psicologiche.
Viceversa apparirà non grave, per difetto del requisito della credibilità/plausibilità, la minaccia generica esternata dal proprio letto di ospedale, nei confronti del personale infermieristico che l’ha in cura, da una anziana paziente;
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Se la minaccia è fatta in una delle forme particolarmente odiose e insidiose prevedute dall’art. 339 c.p.
Trattasi di aggravanti previste a proposito dei reati di resistenza/violenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.).
Vediamole partitamente:
- La pena è aumentata se la minaccia è perpetrata mediante l’uso di un’arma, ovvero di un oggetto che possa apparire, agli occhi della vittima del comportamento illecito, riconducibile al novero delle armi. La ratio della disposizione normativa è intuitiva costituendo l’arma, in quanto mezzo offensivo per definizione, il segno distintivo della gravità e dell’imminenza dello stato di pericolo in cui versa il soggetto passivo della condotta intimidatoria;
- La pena è aumentata se l’autore della minaccia è persona travisata. Il mascheramento dell’autore dell’azione minatoria può indurre maggior paura nella vittima a causa delle difficoltà di identificazione del colpevole. Tale accresciuta probabilità di impunità, per difetto di identificazione, può contribuire ad allentare i freni inibitori dell’autore del comportamento minatorio, spingendolo a condotte ancor più efferate;
- La pena è aumentata se la minaccia è perpetrata a mezzo di uno scritto anonimo. Il paravento dell’anonimato e della conseguente impersonalità della condotta criminosa contribuisce ad improntare la stessa a natura maggiormente subdola;
- La pena è aumentata se la minaccia è perpetrata da più persone riunite. È bene dire che ai fini della configurabilità di tale ultima circostanza aggravante è sufficiente che alla perpetrazione della condotta intimidatoria concorrano anche solo due persone. È intuitivo che la minaccia esercitata non già da un singolo individuo isolato bensì da un gruppo coordinato ed operante all’unisono come un unico soggetto sia suscettibile di accrescere il timore della vittima di essere resa oggetto di vessazioni;
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La pena è aumentata se la minaccia è perpetrata valendosi della forza intimidatrice dell’appartenenza ad associazioni segrete. Tale modalità minatoria si appalesa vieppiù credibile e sconvolgente in quanto:
- subdola;
- riconducibile ad un gruppo organizzato in grado di “vendicare” un comportamento in capo alla vittima di opposizione e rifiuto.
Perché la minaccia grave, oltre ad essere punita con pena detentiva, sia anche perseguibile d’ufficio (vale a dire a prescindere dalla presentazione alla pubblica autorità da parte del soggetto leso dal reato di una formale querela) è necessaria la configurazione, seppur in via alternativa, di una delle ulteriori circostanze che seguono:
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l’applicabilità di circostanze aggravanti ad effetto speciale, diverse dalla recidiva. Si dice circostanza aggravante ad effetto speciale quella la cui applicazione comporta, in deroga al principio generale, un aumento della pena base superiore ad un terzo. Gli esempi classici di circostanze aggravanti ad effetto speciale sono i seguenti:
- le aggravanti del reato di furto ex art. 625 c.p;
- le aggravanti della rapina ex art. 628 terzo comma c.p.;
- le aggravanti del reato di lesioni personali ex art. 585 c.p.;
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L’incapacità per età o per infermità della vittima del reato.
Appare al legislatore particolarmente odioso il reato di minacce commesso ai danni di colui che non può difendersi. Ancor più riprovevole, dunque, è ritenuta la condotta minatoria perpetrata a danno di soggetti maggiormente vulnerabili e impressionabili, poiché il turbamento psichico patito da costoro può rivelarsi sconvolgente.
Avviso di conclusione delle indagini preliminari
L’avviso di conclusione delle indagini preliminari è un atto con cui il pubblico ministero comunica all’indagato e al suo difensore che le indagini sono terminate. Questo avviso ha una duplice funzione:
- Informativa, perché rende l’indagato consapevole delle accuse mosse nei suoi confronti.
- Garantista, poiché offre la possibilità di esercitare il diritto di difesa prima che il pubblico ministero decida se chiedere l’archiviazione del caso o procedere con l’esercizio dell’azione penale.
L’avviso di conclusione delle indagini preliminari è disciplinato dall’art. 415 bis del codice di procedura penale e deve contenere la sommaria enunciazione del fatto per il quale si procede, delle norme che si assumono violate, della data e del luogo del fatto.
Trattasi, in definitiva, di un atto che, ponendo fine alla segretezza delle indagini, incardina, seppur ancora in misura embrionale, il vero e proprio contraddittorio processuale ponendo realmente e concretamente, nonché per la prima volta, la persona cui il reato è ascritto in condizioni di approntare una difesa nel merito dei fatti.
Il pubblico ministero procede alla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei casi in cui non ritenga di dover chiedere al GIP l’archiviazione della notizia di reato, vale a dire qualora ritenga fondata l’ipotesi accusatoria e sia determinato ad esercitare l’azione penale. Ricordiamo che a seguito della riforma (c.d. riforma Cartabia) il pubblico ministero dovrebbe esercitare l’azione penale, e il GUP in udienza preliminare disporre il rinvio a giudizio, solo qualora ritenga che in concreto sussista una ragionevole probabilità di condanna dell’indagato/imputato.
L’avviso di conclusioni delle indagini preliminari va notificato tanto all’indagato quanto al suo difensore, d’ufficio o di fiducia, con l’avvertimento che la documentazione relativa alle indagini è depositata presso la segreteria del pubblico ministero e che l’indagato ed il suo difensore possono consultarla ed estrarne copia.
Nei venti giorni successivi alla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari l’indagato ha facoltà di:
- Depositare memorie difensive contenenti lo svolgimento di argomentazioni di fatto e di diritto che militino nel senso dell’opportunità dell’archiviazione della notizia di reato;
- Produrre documentazione rilevante a discarico;
- Produrre la documentazione relativa allo svolgimento di eventuali indagini difensive;
- Chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio;
- Chiedere di poter rendere sommarie dichiarazioni;
- Suggerire al PM il compimento di ulteriori atti d’indagine, ad esempio relative all’audizione di persone informate dei fatti.
Si badi che il PM, in caso di tempestiva richiesta dell’indagato ovvero prima dello spirare del termine di venti giorni dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ha l’obbligo esclusivamente di sentire o interrogare l’indagato e non già di compiere gli ulteriori atti d’indagine da quest’ultimo suggeriti. Ciò poiché la direzione delle indagini preliminari spetta solo al pubblico ministero.