Diritto Processuale Penale
L’uomo di Rosate
Viaggio a Copenaghen | – 2000 € |
Pratica Branco Artic furto con scasso | + 700 € |
Pratica Giorgio Oldani bancarotta | + 750 € |
Totale | – 550 € |
Eh no, proprio non c’eravamo.
Il saldo dare/avere della mia economia domestico/professionale rischiava di inabissarsi come il Titanic.
Due nuovi clienti al mese non bastavano, se davvero volevo che Claudia, finalmente sorridente alla prospettiva, potesse scattarsi un selfie davanti alla statua della Sirenetta, nella città delle favole di Andersen.
Avrei dovuto impegnarmi allo spasimo e guadagnare parecchio di più.
Così, quando alla sparuta schiera dei clienti si aggiunse Davide Azzoli, tirai un crudele sospiro di sollievo: avrei chiesto subito un bel fondo spese.
Era giovane, di bella presenza, pieno di soldi grazie alla sua attività di autotrasportatore in proprio, gentile nei modi e fiducioso circa la mia abilità professionale.
Il primo appuntamento in studio l’aveva preso parlando con Claudio. In attesa dell’ingaggio di un praticante, cosa che personalmente vedevo come una decisiva svolta professionale, io e Claudio ci davamo reciproco aiuto, avendo libero accesso l’uno all’agenda dell’altro.
Davide Azzoli era indagato a piede libero, cosa insolita, per detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente variegata, dal fumo alla cocaina.
Una pattuglia, su segnalazione di un tossico che lo indicava quale suo fornitore, lo aveva individuato e fermato a bordo di una vettura in sosta nelle campagne di Rosate, nell’hinterland milanese, all’alba di un giorno d’inverno.
Lo avevano condotto nella più vicina questura per il verbale d’identificazione.
Davide Azzoli si presentò al primo appuntamento molto nervoso. Si alzò dalla sedia, all’altro capo della scrivania, ed avvicinò il suo viso al mio, per dare maggior peso alle sue parole. «Avvocato, le giuro sulla testa di mia moglie che quell’uomo non ero io. Non sono mai stato a Rosate in vita mia e quel giorno facevo una consegna di merce a Ragusa».
Ripeté il concetto anche al nostro secondo incontro, quello che avevo fissato dopo aver letto le carte nel fascicolo del pubblico ministero.
Sospettava che qualcuno volesse incastrarlo, qualcuno che conosceva le sue generalità e che magari gli somigliava anche nel fisico. Mentre negava i fatti, l’uomo stringeva un rosario al petto. Mi confessò di collaborare, come allenatore di calcio, con un paio di oratori della periferia milanese e di essere devoto di Padre Pio.
Mi venne naturale credergli, sia per la non comune tenacia nel negare l’addebito, sia perché negli atti d’indagine più di qualcosa proprio non tornava.
L’uomo fermato a Rosate era risultato privo di documenti, persino della patente di guida, ed era stato generalizzato negli uffici di polizia quale sedicente Davide Azzoli, in pratica sulla base delle sue sole dichiarazioni. Non erano state scattate foto, né eseguiti rilievi antroponometrici. Non era stato neppure trascritto il numero della targa dell’autovettura a bordo della quale era stato rintracciato, mentre era ancora sprofondato nel sonno. Quest’ultima cosa avrebbe facilitato l’identificazione poiché si trattava quasi certamente di un veicolo di proprietà dello sconosciuto o di altra persona a lui vicina. Insomma la polizia aveva fatto proprio un pessimo lavoro.
«Avvocato». Mi disse a voce bassa, come se parlasse in un confessionale. «Ho le prove che ero altrove!».
Srotolò davanti ai miei occhi incerti un incartamento pieno di diagrammi. «Questi sono i registri cronotachigrafi del mio furgone. Qui c’è la prova che quella mattina mi trovavo a Ragusa».
Annuii, fingendo di capire e prendendo qualche appunto, mentre mi domandavo cosa diavolo fossero i registri cronotachigrafi e quale efficacia probatoria potessero avere in un processo penale.
«Lei ha anche, per caso, dei testimoni?».
Azzoli scosse la testa.
La cosa mi stupì. «Mi scusi, ma non ha le generalità del destinatario della consegna? Lui di certo potrà confermare la sua presenza a Ragusa».
«La consegna fu fatta materialmente da un mio collaboratore. Il destinatario della merce di sicuro si ricorderà solo di lui. Io aspettavo in auto».
«Molto bene. Allora citeremo il suo collaboratore come testimone».
«E’ impossibile».
«E perché?».
«E’ morto!».
«Ah, mi dispiace». “Che sfiga” pensai, mentre tamburellavo con nervosismo le dita sul tavolo di legno. “C’è sempre qualcosa, magari di imponderabile, che si frappone tra me e la vittoria”.
Ad ogni buon conto era l’ora della scelta: giudizio abbreviato, con definizione allo stato degli atti e sconto di pena di un terzo, o la sfida totale del dibattimento?
Il dilemma era intricato, dal momento che la sua soluzione implicava la conoscenza della vera natura di quegli impronunciabili dischi cronotachigrafi.
Preferii che fosse lui a scegliere, anche per alleviare la mia responsabilità. Lui strinse il rosario tra le mani, recitò qualche muta preghiera, sollevò gli occhi verso il soffitto, come fosse preso da una crisi mistica, e, con mio sollievo prese la decisione per lui più costosa e per me più redditizia: affrontare il dibattimento, fino in fondo
Gli feci firmare una carta, per ufficializzare la sua decisione.
Afferrai la calcolatrice e finsi di consultare il tariffario professionale. Poi scrissi, alla voce fondo spese iniziale, la cifra di quattro mila euro.
Lui si mostrò gentilissimo, di certo il miglior cliente che avessi mai avuto, e senza battere ciglio mi allungò un bel mazzetto di banconote.
«Per favore le conti».
«No. Mi fido di lei».
«Sia gentile. Le conti. Potrei essermi sbagliato».
Posi fine a quel teatrino scrutinando ad alta voce le banconote: quattromila euro sull’unghia. Sorrisi all’idea che il viaggio a Copenaghen fosse molto più di una semplice ipotesi.
Ma quel giorno stesso, a pranzo in pizzeria con Claudio, fui assalito dai dubbi. Il mio amico, mentre si portava il boccale di birra alle labbra, mi scrutava con severità. «Secondo me è un errore non fare l’abbreviato».
Sussultai, rischiando che il boccone di pizza alle acciughe mi andasse di traverso. «E perché?».
«Perché il pubblico ministero porterà a testimoniare i poliziotti che hanno generalizzato l’uomo in Questura. Quelli dichiareranno di riconoscere l’imputato, se non altro per non fare la figura degli incapaci. E l’accusa farà bingo. I dischi cronotachigrafi dimostrano che il furgone aveva viaggiato ma non che alla guida ci fosse il tuo cliente». Ebbe un sorriso di compatimento. «Il testimone morto….e chi ci crede?».
Divenni cupo come il cielo prima del temporale e l’insicurezza, che in me si mescolava invariabilmente all’audacia, mi fece tremare i polsi.
Il processo iniziò in una soleggiata mattina di Marzo.
Il pubblico ministero, come previsto da Claudio, chiese di essere autorizzato a citare in Tribunale i due poliziotti che a Rosate avevano redatto, seppur in modo maldestro, il verbale di identificazione del sospetto spacciatore.
Io chiesi di poter controinterrogare i due testimoni, di sottoporre l’imputato ad esame e produssi i dischi cronotachigrafi. Chiesi anche l’audizione di un mio perito perché spiegasse al Tribunale per quale ragione quegli strani diagrammi costituissero la prova che l’imputato fosse a Ragusa al momento dei fatti incriminati.
L’udienza terminò ed io mi accorsi che l’imputato, seduto alla mia destra, aveva pregato per tutto il tempo, con quella piccola coroncina del rosario stretta tra le dita. «Vedrà che vinceremo. Dio è dalla nostra parte».
Sospirai. «Se ne è convinto lei».
Il cliente mi fissò con occhi straniti. «Perché? Lei no?».
«Oh si». Mi corressi, per non urtare la sua sensibilità. «Ne sono convintissimo».
All’udienza successiva i due agenti di polizia non vennero, senza aver inviato una giustificazione. Si era solo saputo che erano stati trasferiti al sud e che per loro la trasferta sarebbe stata alquanto disagevole.
Il Giudice rinviò ad altra data, ma anche all’udienza successiva nessuno comparve. Il pubblico ministero confessò con candore di essersi dimenticato di citare i due testimoni ed io mi sollevai dalla sedia, impugnando il microfono. «Signor Giudice, chiedo che il pubblico ministero sia dichiarato decaduto dalla prova».
Il giudice respinse la mia istanza ed io mi sedetti sconsolato. Aveva ragione zio Arturo: “se sbagliamo noi avvocati siamo morti, se sbaglia il PM: seconda occasione al giro successivo”.
Prima della successiva udienza, Davide Azzoli venne in studio scortato da Don Ettore, il capo della sua parrocchia. Il sacerdote decantò le doti del suo collaboratore e lo definì uno strenuo e generoso lavoratore dell’oratorio. «Quest’uomo non dorme mai». Declamò il prete. «E quando torna dai suoi viaggi col furgone, invece di riposarsi, dedica tempo ai nostri ragazzi».
Firmai in quell’occasione una seconda ricevuta: questa volta di duemila euro, e li salutai entrambi con calore e gratitudine. Quando ebbero lasciato lo studio contai le banconote una per una, scosso da una sorta di crudele piacere.
Claudia non stava più nella pelle, era come se quei soldi li avesse incassati lei, e volle rivedere il programma di viaggio a Copenaghen. Si cominciò a parlare di una cenetta romantica, a lume di candela, nel miglior ristorante della città, ovviamente nel silenzio ovattato da museo delle cere che a lei piaceva tanto, e di un soggiorno in un hotel di lusso a pochi passi dal castello di Amleto, sul braccio di mare che ci avrebbe separato dalla città di Helsimborg, in Svezia.
Viaggio a Copenaghen | – 4500 € |
Pratica Azzoli | + 6000 € |
Totale | + 1500 € |
Strinsi la calcolatrice tra le dita, con rabbia. Non volevo lavorare per soddisfare i capricci della mia ragazza e sperai, visto che il saldo attivo si stava riducendo, che lei non pensasse a nuovi cambi di programma.
Il processo penale riprese il suo corso e, alla quarta udienza, i due poliziotti, testi dell’accusa, si presentarono in Tribunale, attendendo d’essere chiamati su una panchina di marmo, fuori dall’aula di udienza.
L’agente Ferri fu sentito per primo.
Il pubblico ministero gli indicò l’imputato. «E’ lui l’uomo che avete fermato l’8 dicembre di due anni fa nei pressi di Rosate?».
«E’ lui».
«Ne è sicuro?».
«Certamente».
«Mente. Sta mentendo. E’ un bugiardo». Davide Azzoli borbottava la sua rabbia e, per un istante, ebbi il timore che potesse perdere il controllo e decollare dalla sedia verso il banco dei testimoni. Gli sussurrai all’orecchio. «Difende il suo operato. Non vuole che nessuno gli dica che si è fatto sfuggire uno spacciatore». “Claudio aveva ragione” pensai “Lui ha sempre ragione…come zio Arturo!”.
Il giudice mi diede la parola, per il controesame della difesa. Mi venne istintivo pensare ad uno dei mantra di zio Arturo. “L’abilità di un avvocato penalista si misura sulla base delle domande che pone ai testi di controparte, da come pronuncia ogni parola, dalla postura fisica, dallo sguardo che rivolge alla sua preda…”. Questo diceva lo zio, con gli occhi da serpente accesi dalla passione per la sua professione, l’unico amore che davvero avesse resistito in lui alla prova della vita.
Atteggiai gli occhi alla massima possibile cattiveria, pur essendo certo di non risultare credibile. «Agente Ferri, ricorda se l’uomo che fermaste a Rosate aveva qualche inflessione dialettale?».
Il poliziotto si passò una mano lungo il mento, prima di rispondere. «Non ricordo, avvocato, è passato molto tempo».
Intravidi un’occasione propizia e mi infiammai. «Allora non è passato troppo tempo per ricordare un volto, ma ne è passato troppo per ricordare l’inflessione di una voce? Le pare normale? ».
Il pubblico ministero fiutò il pericolo. «Signor Giudice mi oppongo. La difesa chiede al teste una valutazione personale….».
«Questa non è una valutazione personale». Insistetti. «E’ una constatazione obiettiva!».
Il giudice mi squadrò con sguardo militare. «La domanda non è ammessa, avvocato».
Mi sentii vittima di una ingiustizia. Mollai il microfono e mi buttai a sedere, rassegnato all’ennesima sconfitta.
La deposizione del teste Addonizio, il secondo agente di polizia, fu un volgare copia ed incolla di quella precedente, anche con riferimento alla mia spericolata domanda sull’inflessione della parlata.
Il giudice mostrò fretta di chiudere quel processo. «Se non ci sono altre istanze, dichiarerei chiusa l’istruttoria e vi darei la parola per le conclusioni…».
Fu in quel preciso istante che un’idea mi balenò nella mente. Era uno di quei pensieri, rapidi come fulmini, che o afferri al volo o sono perduti per sempre. Due magiche parole luccicarono sullo schermo gigante del mio cervello da penalista allo sbaraglio: PERIZIA CALLIGRAFICA.
Mi alzai di scatto, temendo di essere fuori tempo. «Signor Giudice chiedo che sia ammessa perizia calligrafica sulla firma apposta dall’uomo fermato a Rosate sul verbale di identificazione. Dobbiamo sapere se quella firma proviene o no dalla mano del Signor Azzoli».
Il pubblico ministero mi lanciò un’occhiataccia furente e sembrò persino scomporsi. «Signor Giudice, questa richiesta è ridicola. Sappiamo perfettamente che la grafologia ha una base probabilistica. L’imputato è stato riconosciuto da ben due testimoni. Cosa vogliamo di più?».
Notai, con sorpresa, che negli occhi del giudice baluginava un sorriso compiaciuto. «Io invece accolgo la richiesta. Abbiamo la possibilità di avere una prova scientifica. L’esperienza ci insegna che, a distanza di anni, il ricordo dei testimoni può essere fallace. E poi anche il pensiero umano ha una base probabilistica, non crede?».
Provai un brivido di vera felicità.
Davide Azzoli mi strinse la mano. «Lei è un grande, avvocato. Con un colpo di biliardo ha ribaltato la situazione».
“Eh già” pensai con insolita fierezza.
Un professore della cattolica fu nominato per quella perizia. Comparve due mesi dopo davanti a giudice e lesse la dichiarazione d’impegno.
Sottopose l’imputato a saggio grafico. Gli fece scrivere dodici volte il suo nome e cognome, dapprima a velocità normale e alla fine alla moviola.
Gli chiese anche di scrivere quattro volte
SONO IO PROPRIO IO L’UOMO DI ROSATE
Acquisì la fotocopia della carta d’ideantità del mio cliente e si riservò novanta giorni per depositare la sua perizia.
Allo scadere del termine, morso dalla curiosità, mi precipitai in cancelleria per ritirare una copia dela relazione peritale.
Quando la strinsi nella mano destra feci scorrere lo sguardo fno alle conclusioni e lessi con emozione
“….si può affermare con assoluta certezza scientifica che la firma apposta in calce al verbale di identificazione NON proviene dalla mano del Signor Davide Azzoli….”.
I fogli mi caddero di mano, per la gioia. Il processo era dunque deciso. Il mio cliente sarebbe stato assolto.
Mi affrettai a comunicare la bella notizia a Claudio, a Claudia (solo un tipo assurdo come me avrebbe potuto avere il nome della fidanzata e quello del migliore amico differenziati da una sola lettera) e ad Azzoli.
Sette giorni dopo si tenne l’udienza di discussione finale.
Il pubblico ministero tentò l’impossibile, sostenendo che la prova testimoniale valesse più della perizia calligrafica.
Io ero al massimo della forma, nella versione Alessinik, e feci l’arringa più brillante della mia ancor breve carriera.
La camera di consiglio durò venti minuti, poi il giudice lesse il dispositivo e assolse l’imputato per non aver commesso il fatto.
Azzoli mi abbracciò, lungo il corridoio. «Lei è stato bravissimo avvocato, e sa perché?».
«Perché?». Chiesi con curiosità.
«Perché nelle campagne di Rosate, all’alba di quel giorno, in quella macchina, c’ero davvero io!».
Rimasi raggelato e mi sottrassi all’abbraccio. Mi ripresi dallo stupore quando ormai il mio cliente era già lontano e urlava al telefono la lieta notizia, forse al suo parroco.
Mi ritrovai a stringere nelle mani una busta piena di banconote. Le contai: erano tremila euro, il saldo finale.
Ebbi un sorriso amaro “Perché non posso essere felice il giorno della mia più clamorosa vittoria? Sembra che un destino beffardo si diverta a tormentare sempre la mia coscienza”.
Mi rifugiai al bar all’angolo e presi in mano il foglio con l’ultimo ambizioso programmino di viaggio a Copenaghen elaborato dalla mia dolce metà.
Mi divertii a barrare due frasette:
CENA A LUME DI CANDELA
HOTEL DI LUSSO HAMLET
Poi scrissi di getto:
Viaggio a Copenaghen | – 2000 € |
Signor Azzoli | + 9000 € |
Totale | + 7000 € |
Tirai un sospiro di sollievo: “Così va meglio!…e poi magari un ristorante eritreo c’è anche a Copenaghen…”.
Perizia calligrafica
La perizia, nell’accezione lata del termine, è il parere scientifico fornito da un esperto del settore in merito ad un determinato quesito, formulato dal Giudice che lo designa per l’incarico, la cui soluzione sia rilevante per gli esiti di un giudizio in corso.
Trattasi dell’analisi tecnica, compiuta da un professionista specializzato nel settore, al quale è sottoposta una questione che richiede uno studio approfondito (si pensi, a puro titolo esemplificativo, alla perizia medico legale finalizzata all’accertamento dei postumi invalidanti a carico della vittima di un sinistro stradale ovvero alla perizia psichiatrica necessaria a valutare la sussistenza, in capo all’imputato, di una piena capacità d’intendere e di volere ovvero di partecipare al processo).
La perizia calligrafica, in particolare, consiste nell’analisi scientifica di quei segni o tratti distintivi che caratterizzano la scrittura irripetibile di una persona (una sorta di DNA calligrafico di ogni singolo individuo). Il perito sottopone ad attenta disamina la grafia a mezzo della quale sono redatti uno o più documenti rilevanti per la definizione di una controversia giudiziale, in genere al fine di determinarne la effettiva riconducibilità alla mano del presunto autore ovvero ad un imitatore. A tal fine il perito si avvale di strumentazione tecnica idonea, quale il microscopio stereoscopico, la lampada di Wood (atta ad evidenziare l’azione di solventi e la presenza di diversi tipi di inchiostro e di abrasioni della carta attraverso l’illuminazione ultravioletta), il comparatore video-spettrale (utile al fine di determinare la cronologia della scrittura), il rugosimetro (per valutare la pressione sulla carta del mezzo scrittorio) ed altra strumentazione ad alta precisione. Il perito dovrà sforzarsi di decifrare la pressione del mezzo scrittorio sulla carta, la velocità della scrittura (una eccessiva ed innaturale lentezza è il principale indice di alterazione e falsificazione della scrittura) le dimensioni delle lettere ed altri segni distintivi del grafismo esaminato.
Si tenga conto del fatto che le principali metodologie di falsificazione sono le seguenti:
- L’imitazione per lucido, ossia l’apposizione del documento da copiare su una fonte luminosa e ricalcando lo scritto su un altro foglio. In tal caso l’imitatore sarà smascherato per la mancanza di pressione, di rilievo e di profondità della scrittura nonché per la sua innaturale lentezza verso destra;
- L’imitazione per ricalco, ovvero ponendo il documento da copiare su di una fonte luminosa e ricalcando con una matita lo scritto su di un foglio bianco che verrà poi tolto dalla fonte luminosa e nel quale la matita verrà prima ricalcata con una penna e successivamente cancellata.
- In questo caso la scoperta dell’imitazione dipenderà dalla presenza di cancellature ossia di abrasioni della carta osservabili tramite microscopio stereoscopico e lampada di Wood;
- L’imitazione pedissequa: ovvero lo studio attento di ogni singola lettera contenuta nel documento da copiare, seguita dalla sua fedele riproduzione nel documento falsificato. In tal caso indici rivelatori della manipolazione del documento saranno la lentezza della scrittura (come quasi sempre) e il cambio di ritmo della stessa.
Vi è nella grafologia una corrente di pensiero che pone l’accento, quale indice di falsità di uno scritto, sulla immutabilità del grafismo. Particolarmente nei casi di esame di più documenti redatti a distanza di tempo l’uno dall’altro, appare ai sostenitori di tale corrente di pensiero inverosimile (e dunque indice di imitazione) il fatto che la scrittura del presunto autore del documento non muti ma resti invariata, fissa, prigioniera di schemi rigidi
Ciò non è ritenuto credibile in quanto, sostengono i fautori di questa linea di pensiero, la grafia di ciascuno di noi non resta invariata ma muta alla luce del percorso evolutivo della nostra personalità, dello stato d’animo e dell’attenzione che mettiamo nello scritto.
La perizia calligrafica è dunque generalmente utilizzata al fine di accertare se un testo olografo sia, o meno, di effettiva paternità di un determinato soggetto cui appare formalmente attribuibile.
Pertanto, la perizia calligrafica ha come oggetto i documenti sottoscritti (o scritti) da una o più persone e prodotti in giudizio a loro vantaggio ovvero a loro danno.
La perizia è richiesta dalla parte processuale interessata all’utilizzo in giudizio del documento oggetto di verifica o al disconoscimento della sua genuinità, ed eventualmente ammessa dal Giudice che procede, tutte le volte in cui si dubiti dell’originalità della scrittura o della sottoscrizione di un documento prodotto agli atti del processo, soprattutto alla luce di una contestazione di falsità ad opera di colui che all’apparenza risulti autore dello scritto.
La perizia calligrafica può estendersi all’analisi dell’intero testo (e non solo della mera firma) tutte le volte in cui la legge prescriva l’autografia di un documento nella propria interezza: è il caso del testamento olografo, che non solo deve essere sottoscritto, ma altresì deve essere interamente scritto di proprio pugno dal testatore, senza il ricorso a mezzi meccanici (computer, macchina da scrivere, etc.).
Seppur marginalmente, la perizia calligrafica (o, in questo caso, più propriamente grafologica) può essere di ausilio anche nei casi in cui si vogliano accertare le condizioni psicofisiche di una persona (magari non più in vita) al tempo della redazione di specifici atti, per valutarne la validità. Com’è stato pacificamente accertato dalla scienza calligrafica, la forma del linguaggio grafico non dipende tanto dalla mano, quanto dalle aree cerebrali da cui derivano gli impulsi motori che governano il movimento della penna o di altro mezzo scrittorio.
La scrittura, quindi, è il prodotto di un programma motorio complesso che originando dal cervello perviene alla mano.
La perizia calligrafica va richiesta ogni volta che si dubiti dell’autenticità di una scrittura ovvero di una sottoscrizione, presupponendone la natura apocrifa (la falsità, prodotta dalla mano di un imitatore). Si pensi, a mero titolo esemplificativo, alla necessità di accertare l’autografia o l’apocrifia di una firma posta su un assegno, una cambiale, una quietanza di pagamento, un testamento, un contratto ovvero una lettera minatoria.
Dalla perizia calligrafica potrebbero emergere profili di responsabilità sia civile sia penale a carico di eventuali falsari/imitatori.
Dunque, è facilmente intuibile come il ricorso ad un perito calligrafico sia divenuto, nella prassi forense, molto frequente sia in un processo civile sia in un giudizio penale.
Nel giudizio penale è opportuno che la perizia sia richiesta al Giudice (generalmente al giudice del dibattimento) nel rispetto dei termini per le istanze istruttorie (almeno sette giorni liberi prima della prima udienza dibattimentale). Ciò poiché nello stesso termine va indicato il consulente di parte, unitamente ai testimoni di cui si chiede l’audizione. In caso si chieda la definizione del giudizio col rito abbreviato sarà comunque possibile subordinare l’opzione del rito all’assunzione di perizia calligrafica.
Il perito calligrafico nominato dal Giudice, d’ufficio o su richiesta di parte, sarà tenuto a comparire all’udienza fissata per il conferimento dell’incarico.
Letta la dichiarazione d’impegno ad espletare le sue funzioni con diligenza e fedeltà (“…consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo nello svolgimento dell’incarico, mi impegno ad adempiere al mio ufficio senza altro scopo che quello di far conoscere la verità e a mantenere il segreto su tutte le operazioni peritali…”) il perito ascolterà la formulazione del quesito peritale e indicherà il tempo che gli è necessario per depositare l’elaborato. Svolgerà il suo ufficio sottoponendo il periziando ad un saggio grafico (vale a dire invitandolo a scrivere sotto dettatura le frasi o le singole parole che riterrà più opportune per confrontare la sua grafia con quella impressa sul documento oggetto di esame). Esaminerà le scritture “di comparazione” ovvero i documenti di certa provenienza dal periziando (firma apposta sul documento d’identità o sulla procura difensiva rilasciata all’avvocato etc).
Depositerà il proprio elaborato peritale, lette le osservazioni dei consulenti di parte, e comparirà una seconda volta innanzi al Giudice per eventuali chiarimenti sulla sua risposta al quesito solo se espressamente invitato a farlo.
Pur essendo la perizia calligrafica dotata dei crismi della scientificità, almeno in astratto, vi sono nella giurisprudenza pronunce che, forse per sfiducia circa la assoluta obiettività di questo mezzo istruttorio, tendono ad escluderne la decisività assoluta ai fini dell’esito di un processo. Ciò anche in considerazione del fatto che lo stato di conservazione del documento sottoposto ad esame può essere tale da inficiare, almeno parzialmente, l’attendibilità della perizia.
Secondo la Corte di Cassazione civile (sentenza n. 30533 del 4 Agosto 2021) la perizia calligrafica /grafologica non costituisce una prova, ma solo un mero indizio, della autenticità di una scrittura prodotta in giudizio.
Secondo tale pronuncia il giudice non sarebbe vincolato, nella propria decisione, alle risultanze della perizia svolta dal grafologo da lui stesso incaricato potendo, viceversa, discostarsene sulla base di altre considerazioni e di diverse risultanze probatorie.
Nella sentenza citata, i giudici della Suprema Corte rimarcano la differenza tra “sospetto” e “indizio”: il primo consiste in una congettura non supportata da prove, il secondo, invece, rappresenta un elemento capace a certe condizioni di condurre dal fatto noto a quello ignoto secondo un ragionamento logico.
La perizia calligrafica/grafologica, secondo la detta pronuncia, non costituirebbe piena prova della autenticità/falsità di un documento, ma solo un mero indizio. Ne deriva, allora, che siffatto elemento deve essere valutato alla luce dei criteri stabiliti dalla legge, secondo cui l’esistenza di un fatto può essere desunta da indizi solo se questi sono gravi, precisi e concordanti.
In altre parole, secondo i giudici della Cassazione la perizia calligrafica/grafologica (così come qualsiasi altra perizia o consulenza tecnica d’ufficio) non costituisce una prova di rilievo assoluto e, pertanto, non vincola il giudice a prestarvi fede. Il giudice potrebbe dunque non ritenere attendibile la perizia e decidere in maniera difforme.
L’avvocato diligente avrà cura, quando ciò sia utile alle ragioni processuali del proprio assistito, di formulare la richiesta di perizia calligrafica nel corpo delle deduzioni istruttorie contenute nella lista testi. Con tale atto andranno anche indicati i propri consulenti di parte.
Parimenti il difensore coscienzioso, in presenza di una affermazione di falsità del grafismo da parte del proprio assistito, cui sia attribuita la paternità di uno scritto decisivo ai fini del decidere, dovrà suggerire al cliente di disconoscere nel primo atto difensivo la propria scrittura o sottoscrizione (vale a dire già con la memoria ex art. 415 bis II comma c.p.p., al termine delle indagini preliminari, ovvero, al più tardi, in sede di esame processuale).
E’ bene sapere che la perizia calligrafica presta il fianco, nella prassi giudiziaria, a molteplici contestazioni di non integrale scientificità. Da più parti si è invocata la natura meramente probabilistica delle conclusioni rassegnate dai grafologi, stante anche la molteplicità di interpretazioni e di scuole di pensiero all’interno del perimetro, talvolta vago, della materia.