Diritto Civile e Processuale Civile
Un sabotaggio
Non mi dimenticherò mai del Signor Bortolo Floris De Rinaldis, e non certo per il suono cacofonico di quel groviglio di lettere, al limite dell’impronunciabile.
Il ricordo di quel signore fuori dal tempo, dal linguaggio aulico, che camminava col bastone più per vezzo che per necessità, non mi resterà impresso neppure perché si ostinava a ritenermi un grande avvocato e mi riveriva con inchini e baciamani davvero imbarazzanti.
Quell’eccentrico signore continua ad occupare un cassetto della mia memoria perché fu proprio lui ad interpellare la mia coscienza, con uno di quei punti interrogativi che a volte torturano la mente degli avvocati: qual è il confine tra la tutela degli interessi del cliente e l’immoralità? E tra la voglia di vincere una causa, Dio quanto ne avevo bisogno all’epoca, ed un senso di giustizia dotato di un minimo di oggettività?
Non sono solito nemmeno oggi, figurarsi allora, perdere il sonno per trovare una risposta a questi dilemmi, perché non sono e non vorrò mai essere un intellettuale; un pensiero troppo profondo finisce per appesantire inutilmente la vita. Però il Signor Bortolo Floris De Rinaldis, logorroico e verboso come le sue generalità, forse per il fatto di essere unico nel suo genere (anche se non saprei dire a che genere appartenesse) rimarrà per sempre nell’album dei ricordi che non sbiadiscono.
Comparve nella mia stanza, per la prima volta, un venerdì di Marzo. Non era un mio cliente; mi era stato affidato da Paola, che seguiva anche pratiche civili. La mia capa mi aveva pregato di non coinvolgerla nella gestione di quella causa, per niente al mondo. «Seguila tu, in tutto e per tutto. Io mi fido». Più che di fiducia, però, si trattava di voglia di evitare guai.
Era un cliente che veniva dal patrocinio a spese dello stato, con regolare nomina d’ufficio timbrata dall’ordine degli avvocati di Milano. Dunque non avrebbe sborsato un euro, vivendo da solo ed avendo un reddito dichiarato inferiore ai diecimila settecento euro.
Mi strinse la mano con convinzione, come se mi conoscesse da anni. «Professore, buon giorno. Grazie del suo tempo».
Pensai che mi volesse prendere in giro, vista la mia faccia da ragazzino ed il mio ridicolo ciuffo biondo. «Mi dispiace, non sono professore».
Il suo sguardo, invece, divenne severo ed implacabile. «Lei è professore, glielo garantisco io». Aveva il tono di chi non ammette obiezioni.
Mi venne da ridere, benché quei modi rigidi e stravaganti mi facessero un po’ paura.
Il cliente mi consegnò una cartelletta di plastica, con una decina di fogli. Sembrò sul punto di mettersi a piangere. «Legga, per favore. Mi hanno condannato a morte! Che vergogna! Non potrò più guadare in faccia i miei amici!».
Diedi una scorsa a quelle carte e vidi che si trattava di un decreto di fissazione di udienza, emesso dal Giudice tutelare (1): l’appuntamento in Tribunale era per la settimana successiva, dunque c’erano pochi giorni per depositare uno scritto difensivo.
Il pubblico ministero chiedeva l’interdizione (2) del nostro cliente per “totale incapacità di intendere e di volere”, con conseguente nomina di un tutore. In alternativa si ventilava l’ipotesi di un’amministrazione di sostegno (3). In ogni caso del tizio, che non risultava avere parenti, si sarebbero occupati i servizi sociali del comune di Milano.
Sollevai lo sguardo e vidi che il Signor Bortolo Floris De Rinaldis mi scrutava con aria affranta. «Ha visto che criminali? Mi danno del pazzo! Preferirei che mi chiamassero ladro o persino assassino». Strinse i pugni con rabbia. «Mi vogliono uccidere! Mi vogliono emarginare come se fossi un appestato. Non dobbiamo permetterlo!».
Sentii il mio cuore battere più forte. La tentazione di ridere era scomparsa del tutto ed io provavo una crescente inquietudine. Mi sono sempre sentito indifeso davanti al mistero della pazzia umana. Sono portato a pensare che sia più facile difendersi dalla crudeltà che dalla pazzia, perché la prima, al contrario della seconda, ha una sua prevedibilità.
Congedai quello strano signore in meno di mezz’ora, dopo avere segnato in agenda il successivo appuntamento per il giorno precedente l’udienza.
Preferii analizzare da solo, parola per parola, il ricorso del pubblico ministero, senza l’affanno dell’ingombrante presenza di un cliente che dava segni di disperazione.
Il Signor Bortolo veniva definito dal pubblico ministero “persona affetta da abituale stato di ubriachezza”. Si parlava anche di querulomania, per una allarmante quantità di denunce, tutte archiviate in poche settimane, per assoluta infondatezza.
A pagina due del ricorso si sosteneva che il cliente frequentasse abitualmente gli uffici del comune, tormentando segretari e funzionari con continue richieste di denaro per le più svariate necessità.
Il pubblico ministero citava anche una relazione del CPS di zona. In quel centro di assistenza psicologica, c’era uno psichiatra che parlava di deliri di persecuzione e di una personalità con tratti di narcisismo.
Lessi che una sera quell’uomo, che aveva appena lasciato la mia stanza, era stato trovato da un vicino di casa, sotto la pioggia scrosciante, in palese stato di ubriachezza, a battere i pugni contro il portone dello stabile, strepitando che gli extraterrestri gli avevano rubato le chiavi.
Sentii bussare alla mia porta e sollevai gli occhi dalle carte; era il giovane cameriere del bar sotto lo studio. Reggeva un vassoio, con un bicchiere ed una bottiglia di Vecchia Romagna. «Gliela offre il suo cliente, avvocato. Quel signore che è stato da lei poco fa».
Osservai con diffidenza quel liquido scuro, che languiva oltre il vetro, e pensai di interrogare il cameriere. «Quel signore ha bevuto molto?».
«Moltissimo, avvocato. Si è anche addormentato sulla sedia, più volte».
«Vi ha dato dei problemi? Come si è comportato?».
«Per niente. È ancora lì che chiacchiera col mio capo. È sbronzo, ma allegro».
Scossi la testa. «Non posso accettare».
Il ragazzo mi fissò con aria avvilita. «Io non posso portarla indietro. È già stata pagata. La prego, la tenga. Vorrà dire che non la berrà». Scomparve con la velocità di un falco, forse temendo una mia reazione.
Lo inseguii lungo il corridoio e riuscii a lanciargli una specie di ammonimento, prima che si dileguasse nella penombra delle scale. «Stateci attenti, quell’uomo ha seri problemi di alcolismo».
Il viso del ragazzo fece capolino, in prossimità dell’uscio, un istante dopo. «E chi lo dice al mio capo? Quello si fregava le mani. Lui guarda solo al cassetto».
Quella frase mi fece disgusto. “Meno male che io non antepongo mai il denaro ai valori che mi ha insegnato mia madre, non lo farò mai!”. Pensai, con un pizzico d’orgoglio, mentre chiudevo la porta dello studio.
Al successivo colloquio, il Signor Bortolo Floris De Rinaldis (mi dovevo ricordare di pronunciare in sua presenza nome e cognome per intero per non farlo innervosire) ci tenne a farmi un resoconto fedele della sua vita. Fu un fiume in pena e mi costrinse a frenetici appunti. Mi parlò con fierezza di vaghe e lontane origini nobiliari paterne e di una villa adagiata sui colli bergamaschi, pignorata dalla banca e venduta all’asta. Raccontò dell’adolescenza e della giovinezza trascorse in Sicilia, presso la famiglia materna che stava a Tortorici. Si commosse nel ricordare l’amata moglie, morta a soli quaranta anni, per un tumore fulminante. I suoi occhi s’illuminarono di nostalgia, quando si dilungò a tratteggiare la sua carriera da pittore. Disse di avere anche aperto una bottega con un lavorante, vent’anni prima. Pretese che mi appuntassi nomi, cognomi ed indirizzi di una ventina di amici che lo aiutavano quand’era in ristrettezze economiche, procurandogli dei lavoretti. «Io non me ne sto mai con le mani in mano. Quando sono in difficoltà mi faccio aiutare, anche dagli uffici del comune, e ho sempre pagato ogni spesa, senza fare debiti».
All’improvviso mi trafisse con uno sguardo rabbioso e sembrò sul punto di perdere il controllo. Rovesciò sulla scrivania una pila di bollette, MAV, distinte di bonifici e foto di viaggi. «E’ un pazzo uno che paga tutte le spese di casa regolarmente? È un pazzo uno che viaggia per il mondo con o suoi amici? Si rendono conto i signori magistrati che mi stanno uccidendo?». Era diventato rosso in volto, con la mascella che sembrava premere per schizzare via. Lo invitai a calmarsi. Provai a confortarlo. «Avere un tutore o un amministratore di sostegno non significa essere pazzi, ma solo avere un aiuto ad amministrare il patrimonio in un momento di difficoltà…».
«Io non ho bisogno di aiuto!».
«Avere un tutore non è una colpa…semmai è un’opportunità…».
Si alzò dalla sedia e temetti che volesse aggredirmi. «Un pazzo è un uomo finito, senza più dignità, avvocato! Gli appiccicano un’etichetta, come si fa coi barattoli. Allora la gente non lo guarda più come prima, si vergogna di stargli accanto. Quando lei vede un pazzo per strada lo segna a dito, lo mostra agli altri. Cambia strada oppure ride di lui. Meglio morto che interdetto o amministrato da altri!».
Guardai l’orologio, sfinito dalla tensione: un’ora e mezza di colloquio. Ritenni di avere preso abbastanza appunti. Due ore mi sarebbero bastate per scrivere la memoria da depositare l’indomani in udienza. Lo congedai con un sorriso, ma lui indugiò nel mezzo del corridoio. Armeggiò col portafoglio e mi ficcò in mano una ventina di banconote da cento euro. Scossi la testa. «Non posso prenderle. Lei è ammesso al patrocinio a spese dello stato. E poi non è mio cliente. Io sono solo l’avvocato che segue la pratica». Indicai la porta di Paola, che però aveva già lasciato lo studio. Lui insistette. «Lei merita di essere pagato. Voglio che mi difenda bene. Giuro che faccio una pazzia, se mi interdicono».
Smisi di protestare e mi infilai il denaro in tasca.
Un’ora dopo, rovesciai nel lavandino del bagno il contenuto di una seconda bottiglia di Vecchia Romagna, ch’era arrivata in studio già aperta.
In udienza Bortolo Floris De Rinaldis fu impeccabile. Elegante, nel suo completo grigio, controllato nelle reazioni emotive e sorridente. Gli avevo fatto una testa quadra a colazione, snocciolandogli le norme etiche del galateo d’udienza. «Parli con lentezza…sia sintetico…non alzi la voce…non guardi a lungo il giudice fisso negli occhi…lo chiami Signor Giudice…risponda sempre alle domande senza divagare…». Si attenne alle istruzioni, come se avesse memorizzato ogni mia singola parola.
Il giudice respinse la richiesta del pubblico ministero di nominare un tutore provvisorio. I nostri sguardi si incrociarono e sperimentai una sorta di complicità tra noi.
Poi il magistrato completò la verbalizzazione nominando un perito psichiatrico perché accertasse la capacità di intendere e volere e lessi nel suo sguardo la più cupa disperazione. Era come se i suoi occhi gridassero: “nessuno ha il diritto di mettere le sue mani nel mio cervello”.
Il successivo colloquio che avemmo in studio fu, per me, il più sconvolgente.
Bortolo Floris De Rinaldis si presentò senza giacca e cravatta, novità assoluta, e con la camicia sbottonata e macchiata. Era spettinato, ingobbito, con una peluria incolta sul mento e senza l’inseparabile bastone. I suoi occhi vitrei fissavano un orizzonte immaginario. Compresi che la prospettiva di dover affrontare una visita psichiatrica, col rischio d’essere ritenuto infermo di mente, lo terrorizzava e tentai di rincuorarlo, con ingenue parole di circostanza. «Non ha nulla da temere…qualunque sia l’esito della perizia la sua vita non cambierà…».
Lui contrasse la mascella, in uno spasmo. «Io non mi presenterò alla visita. Questo è un abuso. Che mi uccidano direttamente!».
«Non dica così. Deve farlo. Il giudice ha deciso così».
Lui si alzò di scatto dalla sedia, indicando la finestra. «Se scrivono che sono pazzo, giuro che mi uccido. Avranno il mio corpo, non la mia mente».
Lessi nei suoi occhi la determinazione di chi è pronto a giocare l’ultima carta ed ebbi timore che a quelle parole potessero seguire i fatti, se avessimo perso la causa.
Fu allora che mi decisi a superare il confine, ed ancora oggi non riesco a pentirmene. Piegai il busto in avanti, con la furtività di un confessore. «E va bene. L’aiuterò».
«L’ascolto, professore».
Abbassai per istinto la voce. «La perizia psichiatrica si fonda sul test di Rorschach. Si tratta di disegni che non significano assolutamente niente. In quei disegni lei ci vede ciò che ha nel cuore o nella testa, almeno secondo gli psichiatri. Può vederci dei mostri, e allora si mette male, o delle figure più innocue e tranquillizzanti». Voltai lo schermo del pc, per mostrargli quei disegni in sequenza, dal primo all’ultimo. Lui, ch’era un uomo intelligente, colse al volo il suggerimento ed annuì. «Dirò che ci vedo delle farfalle».
Questa mia iniziativa non piacque affatto a Claudia, il mio più rigido censore.
Eravamo a cena al ristorante eritreo, il mio preferito, quando avemmo quell’indimenticabile scontro di idee.
Premetto che dovetti impegnarmi alquanto per indurla a rinunciare ai suoi amati ristoranti per fighetti, eleganti e oppressi da silenzi rotti solo dal tintinnio delle posate, e trascinarla nell’unico posto in cui ancora era possibile sostituire forchetta e coltello con dieci dita. Mi è sempre piaciuto mangiare con le mani. Ancora oggi la trovo un’esperienza quasi erotica
Quando ebbi terminato di esporre la mia opera di sabotaggio del test di Rorschach, lei mi lanciò contro lo sguardo inorridito di una catechista che sente un cresimando bestemmiare. «Ma sei impazzito? Quell’uomo potrebbe essere un pericolo per sé stesso e per gli altri».
La mia replica peggiorò le cose. «Tu sei un architetto, Claudia. Hai a che fare con strade e appartamenti. Io sono un avvocato e ho a che fare con l’umano. Tu non puoi capire!».
Lei sembrò sul punto di andarsene. «Questa sì che è bella. Un architetto secondo te non ha umanità?».
«Non ho detto questo…».
«Sei indifendibile, Ale. Per il gusto di vincere una causa hai alterato il risultato di una perizia psichiatrica. Per i soldi stai impedendo che un poveraccio abbia la tutela che merita. Questo è gravissimo!».
Mi accalorai. «Se tu vedessi quell’uomo… Se potessi leggere nei suoi occhi non diresti queste cose. Non abbiamo il diritto di distruggere la libertà di un uomo imponendogli un aiuto che assolutamente non vuole. Sarebbe come obbligare un malato a curarsi».
«A volte la gente non ha la lucidità di capire che ha bisogno di aiuto. Ci dobbiamo pensare noi».
Non ero disposto a cedere. «A volte quello che per noi è un aiuto per gli altri è un’offesa. Sicura che il nostro punto di vista debba imporsi sul loro? Quello si ammazza se gli nominano un tutore. Me l’ha già detto. È sincero. Ti giuro che finirebbe molto male».
Andammo avanti a discutere per più di un’ora. Alla fine ero tanto provato che proposi a Claudia di passeggiare mano nella mano lungo via Paolo Sarpi, sino a corso Como. Quella sera sentii di amarla in un modo diverso, più profondo.
Per pura coincidenza il giorno successivo la cancelleria delle tutele mi spedì via pec la sentenza con la quale il giudice respingeva le domande del pubblico ministero, dichiarando integra la capacità di intendere e di volere del cliente.
Consegnai al cliente la prova della nostra vittoria alle diciotto di quello stesso giorno.
Bortolo Floris De Rinaldis aveva il viso raggiante. Non la finiva di ringraziarmi. Si profuse in inchini e baciamani davvero imbarazzanti e mi fece arrivare dal bar l’ennesima bottiglia di Vecchia Romagna, che finsi di apprezzare.
Ebbi la dignità di rifiutare nuovo denaro e lo accompagnai alla porta.
Prima di chiamare l’ascensore, mi regalò un ultimo sorriso. «Certo che gli psichiatri sono proprio dei pazzi. Il giorno del test ho detto di vedere farfalle, rondini e altri uccelli, come eravamo d’accordo. Però in quei disegni c’erano due draghi che combattevano tra loro, colpendosi con code di fuoco. Alla fine uno divorava l’altro. C’era il fuoco dell’inferno lì dentro. Professore, le giuro che ho avuto persino paura. Quella notte non ho dormito. A questo servono gli psichiatri? A terrorizzare la gente?».
Quando la porta si chiuse mi mancò il fiato. Ripensai alla discussione con Claudia, della sera prima, e i dubbi di avere sbagliato mi tormentarono.
Mi tormentano ancora oggi.
Giudice Tutelare
Il giudice tutelare è un magistrato specializzato, istituito presso ogni tribunale ordinario della Repubblica. Al giudice tutelare sono affidate le questioni relative alla capacità delle persone ed alla tutela dei minori. In tale veste sovrintende alle tutele, alle curatele ed alle amministrazioni di sostegno (l’istituto dell’amministratore giudiziale di sostegno, alternativo agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, ma ormai nella prassi assai preminente rispetto a questi ultimi, è stato introdotto con la L. 6/2004).
Il giudice tutelare, altresì, autorizza il compimento di atti patrimoniali afferenti i beni della persona minore d’età.
Interdizione
Nell’ordinamento giuridico italiano, per interdizione si intendono due distinti istituti assai dissimili l’uno dall’altro per presupposti, natura ed effetti:
- l’interdizione giudiziale, nel diritto civile;
- l’interdizione legale, nel diritto penale.
Con la legge n. 6/2004 è stato introdotto nell’ordinamento italiano l’istituto dell’amministratore giudiziale di sostegno, alternativo agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione (V. ultra).
Interdizione Giudiziale
L’interdizione giudiziale è statuita con un provvedimento reso dall’ufficio giudiziario del giudice tutelare. Con tale pronuncia il maggiorenne (ovvero il minorenne emancipato) perde la capacità d’agire, ossia la capacità di compiere atti giuridici, al ricorrere dei presupposti previsti dalla legge, con particolare riferimento all’infermità mentale che impedisce del tutto ed in radice un libero e consapevole esercizio dei propri diritti. Trattasi di una misura adottata a protezione dell’incapace per evitare che costui, spontaneamente o a seguito di raggiro altrui, possa sperperare il proprio patrimonio con atti dissennati ovvero compiere altre scelte relative alla cura della propria persona idonee ad arrecargli gravi danni.
L’interdizione giudiziale è disciplinata dagli artt. 414 e seguenti del codice civile. L’articolo 414 c.c. così recita: «Il maggiore di età ed il minore emancipato, i quali si trovino in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione».
L’adozione del provvedimento stesso è subordinata, dunque, alla verifica della sussistenza, in capo al soggetto da tutelare, di un’infermità di mente abituale che comporti un’incapacità di provvedere ai propri interessi.
A seguito dell’interdizione, l’incapace non può compiere alcun atto giuridico, né di ordinaria, né di straordinaria amministrazione, a tutela del suo stesso patrimonio. La sua posizione è equiparata a quella del minore e, al pari di quest’ultimo, è nominato, dal Giudice tutelare, un soggetto che provveda a rappresentare, e quindi sostituire, l’interdetto nella cura dei suoi interessi: il tutore (art. 424, co.1 c.c.).
L’interdizione ha effetto immediato dal giorno di pubblicazione della sentenza (art. 421 c.c.) e può essere revocata soltanto su istanza di persone specificamente legittimate (art. 429 c.c.), ma non dell’interdetto stesso.
La sentenza di revoca diviene pienamente efficace dopo il passaggio in giudicato ed in seguito ad essa colui che era stato interdetto riacquisisce interamente la propria capacità di agire. Qualora, invece, si accerti un’infermità meno grave, in questo caso l’interdizione potrebbe lasciare il posto alla meno radicale ed invasiva inabilitazione (ovvero, come vedremo, più frequentemente, all’amministrazione di sostegno).
Ne consegue che tutti gli atti compiuti dopo la pubblicazione della sentenza sono annullabili (art. 427 c.c.), mentre quelli antecedenti la sentenza sono annullabili secondo le condizioni stabilite per gli atti dell’incapace naturale (art. 428 c.c.), ovvero solo provando la malafede della persona che ha contratto con l’incapace medesimo.
Con la legge n. 6 del 9 gennaio 2004 è stato novellato il titolo XII del libro I del c.c. introducendo al capo I l’istituto dell’amministrazione di sostegno più moderno e flessibile e destinato, col tempo, a sostituire integralmente i più rigidi e vetusti istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Interdizione Legale
L’interdizione legale, nel diritto penale italiano, è una pena accessoria applicata d’ufficio dal giudice della cognizione a carico di coloro cui si stata irrogata la pena dell’ergastolo o una pena detentiva non inferiore a cinque anni per delitto non colposo.
A seguito del provvedimento che dispone l’interdizione legale, il destinatario perde la capacità di agire; il provvedimento ha natura meramente dichiarativa al ricorrere dei presupposti di legge, non essendo prevista l’instaurazione di uno specifico procedimento (la sentenza con cui viene irrogata la detta pena accessoria, di natura non protettiva ma punitiva, potrà tuttavia essere resa oggetto d’appello o di ricorso per cassazione).
A differenza dell’interdizione giudiziale, lo stato di incapacità che consegue alla pronuncia del provvedimento in parola non è statuito a protezione dell’interdetto, come nel caso dell’infermo di mente, ma punitivo, a titolo preventivo e di ulteriore sanzione per il condannato (art. 32 c.p.).
Va precisato che l’interdizione legale limita l’incapacità del soggetto ai soli atti che riguardano “la disponibilità e l’amministrazione dei beni” (art. 32 comma IV c.p.) e poiché in questo caso nel soggetto non difetta la capacità di intendere e di volere, esso può compiere atti personalissimi come contrarre matrimonio, fare validamente testamento, riconoscere un figlio (pur se con la “sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori, salvo che il giudice disponga altrimenti”).
Gli atti compiuti dall’interdetto legale sono annullabili e l’azione di annullamento può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse (la legittimazione attiva estesa in capo ad una serie indeterminata di soggetti rafforza l’essenza punitiva dell’istituto).
Amministrazione di sostegno
La misura di protezione dell’amministrazione di sostegno è stata introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6. Tale fonte normativa ha attuato una vera e propria rivoluzione giuridica e culturale nella tutela delle persone fragili, affiancando ai più rigidi istituti tradizionali (interdizione e inabilitazione) un nuovo strumento, più flessibile e quindi maggiormente adattabile alla specificità delle singole situazioni meritevoli di tutela.
L’art. 1 della legge istitutiva della misura di protezione in parola così recita: “la presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”.
L’amministrazione di sostegno si pone, dunque, come uno strumento adattabile ad una vasta casistica, in grado di fornire ai soggetti fragili un supporto (declinato in termini di rappresentanza o di assistenza), che miri a sostenere la capacità residua del soggetto, valorizzando la centralità della persona ed il principio di autodeterminazione. La flessibilità dell’istituto (che lo rende idoneo ad attagliarsi ad una pluralità anche estremamente diversificata di casi concreti) emerge altresì dal carattere temporaneo o permanente del provvedimento di nomina.
La disciplina normativa del nuovo istituto è contenuta negli articoli 404 e ss.ti del codice civile.
Ai sensi dell’art. 404 c.c., la misura di protezione dell’amministrazione di sostegno può essere disposta nei confronti della persona “che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trovi nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”. La flessibilità dell’istituto emerge, semanticamente, anche dal fatto che alla parola infermità (sinonimo di malattia) sia stata associata un’espressione assai più generica (“menomazione fisica o psichica”) suscettibile di attagliarsi a qualsivoglia forma di fragilità meritevole di protezione. Anche il termine “interessi” appare elastico ed idoneo a ricomprendere qualsivoglia diritto personale o patrimoniale del soggetto meritevole di protezione.
Sussistono, dunque, due requisiti per l’applicabilità dell’istituto:
- la menomazione fisica o psichica (la cui definizione, comunque, è sganciata dal concetto di vera e propria infermità nosograficamente etichettata);
- l’impossibilità di provvedere ai propri interessi.
Entrambe le condizioni di applicabilità dell’istituto devono coesistere ed essere legate da un rapporto di causalità stretto e diretto.
Ai fini dell’adozione del mezzo di protezione in parola, dunque, non rilevano solo le conclamate patologie psichiatriche, classificabili nosograficamente alla stregua della scienza medica, bensì anche ipotesi di fragilità non etichettabili che, tuttavia, compromettano le facoltà psichiche del soggetto nella tutela della salute, dei diritti fondamentali della persona e del suo patrimonio (come, a mero titolo esemplificativo, la ludopatia che, pur non essendo configurabile sempre quale causa di infermità, è potenzialmente idonea a devastare l’economia domestica del soggetto che ne è affetto).
Credo che si possa affermare che l’istituto dell’amministrazione di sostegno abbia di fatto soppiantato l’interdizione giudiziale, apparendo istituto più flessibile, elastico, sganciato da un rigido concetto di infermità, idoneo a valorizzare le capacità del beneficiario nonché meno devastante per l’armonia familiare (in effetti si potrà sempre spiegare al beneficiario che l’amministrazione di sostegno non è indice di “pazzia”, ma solo un aiuto in caso di fragilità anche momentanea).
La legittimazione attiva a richiedere la misura è riconosciuta, anzitutto, alle persone che abbiano con il beneficiario un rapporto stretto di convivenza (in primis) ovvero parentale. Ciò è disposto in omaggio al principio che ciascuno ripone la massima fiducia nei cari che gli vivono accanto o nei propri familiari. In effetti, a norma degli artt. 404 e 417 c.c. sono legittimati alla richiesta:
- il Pubblico Ministero (generalmente su segnalazione dei CPS territoriali);
- il beneficiario della misura, conscio dei propri limiti e delle proprie fragilità;
- il coniuge;
- la persona stabilmente convivente (il c. d. convivente more uxorio);
- i parenti entro il quarto grado;
- gli affini entro il secondo grado;
- il tutore dell’interdetto;
- il curatore dell’inabilitato;
- l’unito civilmente, in favore del proprio compagno/a.
Inoltre, ai sensi dell’art. 406 comma 3° c.c., sono destinatari di un vero e proprio obbligo giuridico in tal senso “i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura ed assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno”. Essi dovranno proporre il ricorso ex art. 407 c.c. al Giudice Tutelare, o, in alternativa, dovranno fornire notizia delle circostanze a loro note al Pubblico Ministero tramite apposita segnalazione.
In questo secondo caso, sarà poi la Procura della Repubblica a valutare l’eventuale proposizione del ricorso.
Nel procedimento, non è necessaria la difesa tecnica. Pertanto, il ricorso potrà essere presentato direttamente dal ricorrente, senza la rappresentanza tecnica di un avvocato. Si badi che, in caso la persona fisica si attivi senza l’assistenza di un difensore, le cancellerie competenti prestano la massima assistenza anche attraverso la consegna all’utenza di formulari e moduli prestampati che facilitano la redazione del ricorso e l’individuazione della documentazione da allegare.
Ai sensi degli artt. 404 e 407 c.c., il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno si propone con ricorso da depositarsi presso il Tribunale (ufficio del Giudice Tutelare) del luogo di residenza o domicilio del potenziale destinatario della misura.
Il ricorso deve contenere:
- l’indicazione del Giudice Tutelare territorialmente competente;
- le generalità del ricorrente e del beneficiario;
- l’indicazione della residenza, del domicilio e della dimora abituale del beneficiario;
- il nominativo ed il domicilio dei congiunti e dei conviventi, come individuati nell’art. 407 c.c.;
- le ragioni per cui si chiede la nomina dell’amministratore di sostegno, con specificazione degli atti di natura personale o patrimoniale che debbano essere compiuti con urgenza. A tale ultimo proposito occorrerà documentare la fragilità del beneficiario, con indicazione della patologia che lo affligge e della certificazione medica a comprova.
Bisognerà avere cura di fornire una descrizione delle condizioni di vita della persona ed effettuare una prima ricognizione della situazione reddituale e patrimoniale della stessa, onde delineare fin da subito il progetto di sostegno che dovrà essere poi messo a punto dal Giudice Tutelare (qui si fa riferimento soprattutto: all’ultimo estratto di conto corrente, ivi compreso il saldo attuale dei dossier titoli; alla visura dei beni immobili intestati al beneficiario; alla specificazione dei redditi, pensioni, assegni di accompagnamento ed altre provvidenze in favore del beneficiario, nonché alle spese abituali da affrontare).
Se non sussistono particolari ragioni di urgenza, il Giudice Tutelare, letto il ricorso, fissa con decreto la data di udienza per l’audizione del beneficiario e per la convocazione del ricorrente e degli altri soggetti (congiunti, conviventi, etc.) indicati in ricorso. Molti tribunali richiedono altresì la produzione del certificato del casellario giudiziale e dei carichi pendenti della persona che, in ricorso, si candida a ricoprire il ruolo di amministratore di sostegno.
Il ricorso ed il decreto devono essere notificati, a cura del ricorrente, al beneficiario; entrambi gli atti devono essere comunicati altresì agli altri soggetti indicati nel ricorso. Mentre nel primo caso (notifica) sarà opportuno avvalersi degli ufficiali giudiziari, nel secondo caso (mera comunicazione) sarà sufficiente una raccomandata a mani, con fotocopia del documento d’identità del destinatario che sottoscrive per ricevuta.
La fase istruttoria può esaurirsi con l’audizione del beneficiario, del ricorrente e dei congiunti (se presenti) e con la sola acquisizione della documentazione allegata al ricorso (con particolare riferimento a certificazione medica relativa alla patologia comportante un affievolimento delle capacità psichiche del soggetto di cui si chiede la protezione); tuttavia, il Giudice Tutelare, in virtù degli ampi poteri istruttori che gli sono riconosciuti dall’art. 407 c.c., può disporre, anche d’ufficio, ogni ulteriore accertamento, anche ordinando l’assunzione di apposita consulenza tecnica in ordine alla capacità ed autonomia del beneficiario (consulenza tecnica psichiatrica).
Il Giudice Tutelare provvede, quindi, con decreto motivato e immediatamente esecutivo.
Ai sensi dell’art. 405 c.c., qualora, invece, sussistano particolari ragioni d’urgenza, il Giudice Tutelare, subito dopo il deposito del ricorso, potrà adottare, anche d’ufficio, inaudita altera parte, i provvedimenti necessari per la cura della persona e per la conservazione e l’amministrazione del patrimonio, a tal fine anche nominando un amministratore di sostegno provvisorio. In tale eventualità, l’udienza per l’audizione del beneficiario verrà fissata in seguito e, espletato ogni opportuno approfondimento istruttorio, la misura di protezione potrà essere confermata o revocata con decreto definitivo.
La scelta dell’amministratore di sostegno viene effettuata dal Giudice Tutelare “con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona beneficiaria”.
L’art. 408 c.c. individua un ordine preferenziale a cui il Giudice Tutelare dovrà attenersi in tale valutazione:
- in primo luogo, deve essere valorizzata l’eventuale designazione dell’amministratore di sostegno già effettuata dal beneficiario, in previsione della propria futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata ovvero anche con dichiarazione resa, in sede di audizione, innanzi al Giudice Tutelare; parimenti, dovrà tenersi conto dell’eventuale preferenza manifestata dal beneficiario in altra sede nel corso del procedimento, sempre che egli conservi adeguata capacità di discernimento;
- in mancanza di designazione o in presenza di gravi motivi (quando, ad esempio, il soggetto designato non è idoneo allo svolgimento dell’incarico ovvero si appalesa un astratto conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato), il Giudice Tutelare, con decreto motivato, potrà nominare un amministratore di sostegno diverso; nell’effettuare tale scelta, il Giudice Tutelare dovrà preferire, se possibile, uno dei seguenti soggetti:
- il coniuge che non sia separato legalmente;
- la persona stabilmente convivente;
- il padre, la madre, il figlio, il fratello o la sorella;
- il parente entro il quarto grado;
- il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata;
- inoltre, in caso di opportunità, o – se sussista la designazione da parte del beneficiario – in presenza di gravi motivi, il Giudice Tutelare potrà nominare un soggetto terzo di propria fiducia. A tal fine, potrà attingere, ad esempio, ad appositi elenchi istituiti presso i singoli Uffici giudiziari che contengono i nominativi di professionisti in materie giuridiche ed economiche disponibili allo svolgimento dell’incarico.
Appare condivisibile la scelta del legislatore di premiare il legame affettivo intercorrente tra il soggetto fragile ed il proprio amministratore di sostegno, posto che alcuna attività profiqua di aiuto ed assistenza può avere luogo in difetto di fiducia interpersonale e di concreta prossimità.
Ai sensi dell’art. 413 c.c., laddove ne ricorrano i presupposti, il Giudice Tutelare, su istanza motivata del beneficiario, del Pubblico Ministero, dell’amministratore di sostegno o di uno dei soggetti di cui all’art. 406 c.c., potrà disporre la sostituzione dell’amministratore.
La norma non indica i casi di sostituzione dell’amministratore, con la conseguenza che la valutazione è lasciata alla discrezionalità del Giudice: in concreto, la sostituzione potrà avvenire, anche al di fuori di un intento sanzionatorio, in caso di persistente dissenso con il beneficiario, in caso di decorso del termine decennale previsto dall’art. 410 ultimo comma c.c., nell’ipotesi di trasferimento dell’amministratore di sostegno in luogo lontano dalla residenza abituale del beneficiario ovvero qualora sopravvenga un conflitto d’interessi tra amministratore ed amministrato (si pensi al caso in cui l’amministrato intenda effettuare donazioni all’amministratore e quest’ultimo decida di dare seguito a questa volontà).
La norma statuisce la tendenziale gratuità dell’incarico, disponendo tuttavia che il Giudice Tutelare, considerando l’entità del patrimonio del beneficiario e la difficoltà dell’amministrazione, possa liquidare in favore dell’amministratore (specie se si tratti di un professionista estraneo alla famiglia) un’equa indennità.
Contestualmente al deposito del rendiconto annuale, l’amministratore di sostegno potrà formulare istanza al Giudice Tutelare per richiedere il riconoscimento di tale indennità.
A seguito dell’entrata in vigore della c.d. riforma Cartabia, dal primo marzo 2023, l’amministratore di sostegno può essere autorizzato al compimento di negozi guiridici, nell’interesse dell’amministrato, non solo dal Giudice Tutelare ma anche da un Notaio.
L’empatia, la sensibilità umana, la capacità di dialogo e di ascolto pur non strettamente attinenti al tecnicismo difensivo e processuale arricchiscono il bagaglio professionale dell’avvocato, garantendo un innegabile valore aggiunto sovente decisivo ai fini del risultato da conseguire.
Pertanto, l’avvocato incaricato di patrocinare innanzi al Giudice Tutelare una pratica di capacità, specie se sorta in ambito familiare, dovrà essere attento a distinguere il volgare, e sempre più frequente nella pratica, bisogno di controllo del patrimonio del parente ricco ed anziano, da parte di congiunti senza grandi scrupoli, dalla genuina preoccupazione dei parenti stretti per la miglior tutela del proprio caro. Nel primo caso rifiuterà di seguire la pratica, nel secondo caso accetterà l’incarico, consapevole della delicatezza della materia trattata.
Nel caso di ricorso di un parente per la nomina di se stesso ad amministratore di sostegno di un congiunto in condizioni di fragilità, occorrerà:
- valutare attentamente la sussistenza di una effettiva esigenza della misura;
- valutare l’esistenza di un accordo, o quanto meno di una non opposizione, degli altri parenti stretti circa la nomina del ricorrente all’ufficio di amministratore di sostegno;
- ricordare al ricorrente:
- che l’ufficio suddetto impone una rigorosa separazione del patrimonio del protetto da quello dell’amministratore;
- che ogni spesa sostenuta per l’amministrazione va documentata con esibizione/produzione di fatture e di scontrini;
- che periodicamente l’amministratore di sostegno deve depositare una relazione scrupolosa e documentata sulla situazione patrimoniale del protetto;
- invitare il ricorrente ad anticipare al congiunto fragile che si intende proteggere il significato dell’azione legale, che rimane volta alla tutela del beneficiario e non già all’intento predatorio dell’impossessamento dei suoi beni. In particolare, sarà bene spiegare al beneficiario che l’amministrazione di sostegno, volta unicamente a garantire serenità alla famiglia, non costituisce menomazionedel suo valore di persona, bensì strumento idoneo a garantire l’integrità psico-fisica e patrimoniale in caso di momentanea difficoltà del beneficiario stesso.
Buon pomeriggio,
la ringrazio per i racconti , li trovo veramente interessanti ed istruttivi, cosi’ pure tutte le pagine correlate ad ogni caso.
Nuovamente grazie,
buon pomeriggio