Diritto Processuale Penale
Gli incubi del penalista
Il racconto si riferisce ad un periodo di tempo precedente alla pandemia
L’Avvocato Paola Goggi non aveva proprio niente in comune con zio Arturo.
Il suo studio aveva solo quattro stanze, senza mobili di pregio, ed io ero l’unico collaboratore. Non c’era neppure una segretaria.
Accanto alla scrivania, l’avvocato teneva a portata di mano un classificatore nero, con una targhetta. Dentro la cornice metallica c’era un foglietto scritto col pennarello: “PATROCINI A SPESE DELLO STATO CIVILI E PENALI”. Vedendolo, il primo giorno che ero stato lì, ricordo d’aver tirato un sospiro di sollievo: “finalmente qualcuno che non guarda solo ai soldi”. Speravo che in quelle quattro stanze ci sarebbe stato posto anche per il mio vicino di casa, che doveva salvare il suo appartamento dalle grinfie della banca e che mio zio si era rifiutato di ricevere.
L’avvocato Goggi non lanciava anatemi giuridici e non indossava la corazza delle “verità in tasca”, ma, durante le riunioni di studio, mi chiedeva spesso cosa ne pensassi a proposito della migliore strategia processuale nell’assistenza dei clienti. Sembrava stimarmi molto, certo più di quanto lo facessi io stesso, e l’alta considerazione di cui godevo mi spingeva a dare il massimo. Così mi trattenevo in studio anche oltre le venti e spesso finivo per portarmi le pratiche a casa. Quando era attanagliata dai dubbi, sfogava l’ansia bombardandomi di domande. Mi vedevo piovere addosso quesiti del tipo: «…e se l’imputato in udienza cambiasse versione dei fatti negando l’addebito, secondo te risulterebbe credibile? Sarebbe in grado di affrontare il controesame del PM senza cadere in contraddizione?»; «ce la possiamo giocare in dibattimento o è meglio patteggiare la pena per avere la sospensione condizionale?»; «…credi che sarebbe una bella idea proporre alla vittima un risarcimento del danno per ottenere la remissione della querela e l’attenuante?». Una volta mi fece sentire addirittura più autorevole di un professionista esperto. Mi guardò dritto negli occhi, me lo ricordo come fosse ieri, con l’aria del paziente che si affida al proprio medico di fiducia: «quante possibilità abbiamo di vincere in appello? Vale la pena di farlo oppure per il cliente è solo denaro sprecato?». Dopo aver risposto che forse era meglio non esporre il cliente a nuove spese, lasciai la stanza dei colloqui pieno di orgoglio.
A volte l’avvocato Goggi sembrava pendere addirittura dalle mie labbra. In quelle indimenticabili occasioni, il suo sguardo avido di risposte mi gratificava più dello stipendio che ricevevo con puntualità a fine mese. Mentre esprimevo il mio punto di vista, mi osservava in tralice, con lo sguardo assorto in un’espressione da statua greca, per poi annuire e riprendere vita solo al termine del mio discorso. Si divorava spesso le unghie ed aveva improvvise crisi di panico, ogni volta che temeva di avere fatto scadere qualche termine perentorio (1). Era ossessionata dal terrore di incorrere in responsabilità professionali e consultava spesso le clausole del contratto di assicurazione, per sentirsi al riparo dal rischio di mettere in pericolo il suo patrimonio. Quando era afflitta dal sospetto di una dimenticanza, non riusciva ad evitare di scomporsi e consultava con frenesia i fogli delle pratiche e le sue due agendine, borbottando frasi sconnesse, quasi parlasse a sé stessa «Oddio, ma l’abbiamo depositato l’atto? Che stupida che sono, dovrei farle subito le cose e segnarmele!…dove abbiamo messo la ricevuta?!…oddio che disastro, il cliente mi ucciderà questa volta!».
Io, che ho sempre avuto buona memoria, le sventolavo davanti agli occhi la prova che tutto era a posto. Allora lei mi sorrideva ed io mi sentivo la persona giusta al posto giusto. In fondo mi è sempre piaciuto indossare le vesti del protettore. Lo trovo il modo migliore per mantenere in equilibrio la mia esistenza destinata ad essere sempre appesa ad un filo sottile, come quella di tutti gli altri sventurati appartenenti alla mia generazione.
Stavo riflettendo su tutto questo, affacciato alla finestra che dava su Via Francesco Sforza, quando Paola posò sulla mia scrivania “quella pratica”.
Mi permetto di chiamarla col nome di battesimo perché era stata lei a concedermi questo piccolo privilegio, fin dal nostro primo colloquio. La sua seconda richiesta era stata quella di darci del tu. «In fondo siamo colleghi e dobbiamo lavorare gomito a gomito. Dobbiamo fare squadra». Si era lasciata andare ad un sorriso imbarazzato, che mi aveva reso felice.
Era il tardo pomeriggio del primo martedì di Febbraio del duemila diciannove e la cartelletta verde, in mia attesa, luccicava, lambita da un riverbero di luce. Accanto al fascicolo c’era un appunto scritto di fretta su un foglio A4: FARE APPELLO, ABBASTANZA URGENTE.
La parola “abbastanza” mi incuriosì. Trangugiai ciò che restava del mio caffè e mi misi al lavoro, sfogliando le carte di quel voluminoso faldone.
L’incartamento riguardava un tale Massimo Colombo. Il tizio, di certo cliente abituale dello studio visto che aveva varie pratiche a suo nome, era stato condannato a tre anni di carcere per appropriazione indebita, per avere sottratto oltre centomila euro dalle casse della società che amministrava. Aveva spostato il denaro da un conto intestato alla società ad altri collegati e poi lo aveva fatto sparire, fingendo di saldare debiti inesistenti. La querela era stata sporta dal socio di maggioranza dell’azienda depredata.
Mi feci sfuggire un sorriso amaro, perché un pensiero indegno della mente di un avvocato penalista si era impadronito del mio cervello: “tre anni sono niente per un fatto del genere. Se davvero è colpevole bisognerebbe buttare la chiave, altro che appello!”.
Mi piaceva talvolta svestire per qualche istante i panni dell’avvocato, per indossare quelli dell’uomo della strada. Quel gioco serviva a dimostrare a me stesso di non essere un intellettualoide chiuso nella sua torre d’avorio, come talvolta capitava al mio amico Claudio, che avrebbe vestito la toga anche di notte, al posto del pigiama.
Diedi un’occhiata al capo d’imputazione per appropriazione indebita e vidi che i fatti erano molto risalenti nel tempo. Si parlava addirittura dell’ottobre 2011.
Diedi una scorsa al codice penale, calcolatrice alla mano, e mi accertai che di lì a un mese il reato si sarebbe prescritto, con buona pace delle patrie galere e delle associazioni per l’affidamento in prova al servizio sociale. Sarebbe bastato scrivere due pagine d’appello (2) per restituire quel signore alla sua, forse immeritata, condizione di incensurato.
Mi divertii a sottoporre ad accurato esame la fotocopia della carta d’identità del nostro cliente: capelli vaporosi, mento sollevato, bavero del cappotto ostentato ed occhi arroganti. Provai un’istintiva repulsione per quello sguardo altezzoso, ma ancora oggi nutro il sospetto che la mia reazione nascondesse un’imbarazzante verità. Forse una parte recondita di me avrebbe voluto essere proprio così? Uno sicuro di sé, che si allena a guardare gli altri dall’alto in basso?
Calcolai e ricalcolai la scadenza dell’atto d’appello, fino ad essere certo di doverlo scrivere e depositare entro il venerdì di quella stessa settimana. Avevo tre giorni di lavoro, dunque, un termine più che sufficiente. Tuttavia decisi che ci avrei messo mano fin dal giorno dopo, per togliermi il pensiero. Guardai l’orologio: le ore venti. Ormai ero rimasto da solo in studio. Avevo voglia di tornare a casa a piedi, perché spirava una brezza che metteva di buonumore ed io ero stato incollato alla sedia per tutto il pomeriggio. Chiusi il portone condominiale alle mie spalle, fischiettando. Mandai un Whatsupp a Paola, perché sapevo quanto l’angustiassero le scadenze degli atti legali: “pratica Colombo vista e studiata. Prescrizione vicina. Facciamo appello ed è salvo. Domani sarà fatto”. Lei rispose all’istante “Molto bravo. Grazie”.
Il mattino dopo, mi sedetti davanti al computer con uno sbadiglio di noia, per scrivere l’atto più semplice della mia pur brevissima vita professionale. Avrei persino potuto delirare e concepire gli argomenti giuridici più assurdi, tanto, per la crudele implacabilità del codice di procedura penale, mi sarebbe bastato munirlo di un timbro di ricevuta rilasciato dalla cancelleria del Tribunale entro le ore tredici del successivo venerdì.
Avevo fatto in tempo solo a scrivere l’intestazione, Ecc.ma Corte d’appello di Milano – Ricorso in appello, quando la faccia di Claudia pretese la mia attenzione, comparendo inesorabile sul display del cellulare.
«Dimmi».
«Ale, ti prego, andiamo a Porto Venere».
«E quando?».
«Adesso!».
Feci un lungo respiro. L’occhio mi cadde sullo schermo del computer, ancora pressoché vuoto di parole, poi sulle dieci pagine della sentenza di condanna di primo grado ed infine sugli appunti che avevo scarabocchiato, abbozzando qualche argomentazione logica per l’appello. “No” mi dissi risoluto “adesso sto facendo un appello. DECISAMENTE NO!”. Impugnai per istinto i bordi della tastiera, come l’alpinista afferra la corda, per non rischiare di precipitare nel vuoto.
«Non posso. Devo scrivere un atto d’appello che scade venerdì».
«Ma mancano due giorni. Scrivilo domani!».
«Non posso rischiare…».
«Ti prego. Ne ho proprio bisogno!».
Li conoscevo bene i suoi “ti prego”. Avevano la forma lessicale ed il tono della supplica, ma nella sostanza erano molto simili ad imperativi categorici ed io, quella volta, ero deciso a resistere.
«Ci siamo stati tre settimane fa, a Porto Venere. Questa sera ti porto a cena, promesso. Adesso devo lavorare!».
«Mi avevi detto di poter chiedere un giorno di permesso. Hai lavorato due sabati pomeriggio, ricordi?».
Porto Venere era diventata una specie di incubo: ore ed ore in coda sulla A 7, la spaghettata con le vongole al solito posto con Sabrina, l’amica del cuore di Claudia, il pellegrinaggio alla riscoperta dei luoghi dell’infanzia, quelli nei pressi della casa della nonna morta di recente, per finire con la passeggiata verso la rocca di San Pietro, un baluardo biancheggiante a precipizio sul mare…che palle!
Ma lei non rinunciava. Diceva che aveva assoluto bisogno di un’evasione, che aveva avuto una brutta lite con quell’impicciona di sua madre, ed io, come al solito, cedetti e mi allontanai dal pc. Strisciai come un fantasma fino alla soglia della stanza di Paola che, nel vedermi, si tolse le cuffie dalle orecchie.
«Hai bisogno?».
Inventai che dovevo aiutare mia madre e le strappai un «arrivederci a domani». Lasciai lo studio sentendomi un bugiardo.
Mentre imboccavo l’autostrada, ebbi una visione che mi fece sospettare d’essere afflitto da una malattia incurabile. Mi apparve il volto di zio Arturo, proprio come se ce l’avessi davanti in quel momento al posto, al posto della Fiat Punto che mi precedeva lungo la corsia del telepass. Seduto sul suo trono, dal quale nei miei pensieri ero convinto che non sarebbe mai davvero sceso, lo zio mi puntava contro il suo indice accusatore. «Ricorda: il lavoro viene prima delle ragazze. Perché le ragazze non ti danno da mangiare e se tu non ti impegni nel lavoro saranno proprio loro a mollarti!».
Erano le tredici in punto, quando ci sedemmo al solito tavolino per tre del ristorante sulla costa. Come al solito, Claudia parlò tutto il tempo con Sabrina. Ridevano come matte, rievocando fatti di un passato più che remoto. Ricordarono il giorno in cui Claudia aveva finto di annegare, per essere salvata da Marco e di quando la nonna di Sabrina le aveva rincorse, giù per il vicolo, dopo averle scoperte con la sigaretta in mano.
Io mi divertii a fissare il calice di prosecco in controluce, studiando le evoluzioni delle bollicine, nella vana speranza di poter scomparire in quella più piccola. Ad un tratto mi sembrò che il Signor Colombo mi fissasse, con aria di rimprovero, dalla fotocopia della sua carta d’identità.
Tornai a casa alle ventuno, con la testa piena di confuse parole e lo stomaco in lotta con un liquido giallo paglierino, per non affondare.
Il mattino dopo, alzandomi dal letto, vidi i mobili della camera ruotare tutt’attorno, presi in un vortice, e le vertigini ebbero il sopravvento, inducendomi ad accovacciarmi a terra. Vomitai fino a mezzogiorno. Non ebbi neppure la forza di uscire dal bagno. Evitai di pranzare ed alle tre del pomeriggio mi sentii decisamente meglio, pur con lo stomaco che invocava pietà. Arrivai in studio alle quattro. Per fortuna Paola era in trasferta a Roma, per un’udienza di cassazione. Mi sedetti davanti al pc giurando a me stesso che niente mi avrebbe più distratto da quel dannato atto d’appello. Eppure non riuscivo a scrivere. Il pensiero andava alla rocca di San Pietro, al piatto di spaghetti alle vongole, all’antipasto servito troppo in fretta. “L’impepata di cozze”: ecco cosa mi aveva fregato.
Il telefono di studio squillò in modo inquietante. Niente mi toglierà mai dalla testa che il telefono fiuta i guai ed il suo trillo alla fine prende la voce di chi chiama. Quando sollevai la cornetta sapevo con certezza che quella telefonata mi avrebbe sconvolto.
«Pronto?».
«Salve, sono Colombo».
“Oh, che coincidenza” pensai. «Buongiorno Signor Colombo, mi dica».
«Mi sono segnato che oggi scadeva l’atto d’appello. Ve ne siete ricordati, vero?».
Mi mancò il fiato e guardai le lancette dell’orologio: quasi le cinque. Scossi la testa “non è possibile, si sbaglia…Eccome se si sbaglia”.
«Tutto fatto, stia tranquillo». La voce mi morì in gola.
Quando abbassai il cordless, sentii il cuore rimbalzarmi in petto ed i fantasmi degli errori del passato assaltarono le mie tempie. Afferrai i dieci fogli della sentenza che avrei dovuto appellare e mi concentrai sulla data apposta accanto alla firma del giudice. Rifeci un’altra volta il conto, premendo l’indice contro ogni singolo foglio dell’agenda giudiziaria e fui rapito da una vertigine peggiore di quella del mattino: “Oggi…scadeva oggi alle tredici!…Oggi!…quattro ore fa!”.
Mi presi la testa tra le mani, in un impulso disperato. Avrei voluto afferrarmi il collo e stringere, fino ad annientare il mio stesso respiro. “Ma com’è possibile? Come posso avere fatto un errore simile?!”.
Scossi la testa e mi convinsi che l’ansia mi stava giocando un brutto scherzo. Agitai le mani come ad impormi di recuperare la calma. Rifeci il conto sulla punta delle dita, urlando ogni singolo numero contro il vetro della finestra. Alla fine mi accasciai sulla sedia, temendo d’essere inghiottito dal pavimento: “Oggi!”. Ero fottuto. Vedevo i sogni della mia vita infranti contro il gigantesco scoglio di un giorno in meno sull’agenda. L’impepata di cozze non mi aveva provocato una semplice indigestione, aveva posto fine ad una carriera che se non brillante avrebbe potuto essere almeno dignitosa.
Cominciai a percorrere la stanza a passi concitati, avanti ed indietro, come una mosca imprigionata sotto un bicchiere: “E adesso? Cosa faccio?”. Immaginai il volto disperato di Paola, quando avrebbe avuto la notizia, le sue lacrime, il suo contratto d’assicurazione rigirato tra le dita, la sua targa d’ottone appiccicata alla porta di studio che luccicava nella penombra del pianerottolo, pronta per essere gettata via. Avrebbe urlato, si sarebbe incolpata dell’accaduto, fino a pensare che fosse tutto perduto! E questa volta io non avrei trovato parole per consolarla, non le avrei sventolato davanti agli occhi con aria rassicurante una ricevuta di cancelleria. Anzi! A quell’ansia avrei sommato il mio impietrito sgomento. Pensieri assurdi mi balenarono in un cervello ormai sconvolto dalla paura: creare una falsa certificazione di deposito, al solo scopo di mostrarla al cliente per poi raccontargli che l’appello era stato solo respinto e non dichiarato tardivo.
Sapevo bene che cosa mi avrebbe detto zio Arturo, se mi avesse colto in quel momento di sconforto. «Se perdi la causa perché non hai prove sufficienti sono problemi del cliente, ma se buchi un termine il problema è solo tuo!».
Avevo ormai le mani nei capelli ed il viso inerte contro lo stipite della porta, quando la mia ultima risorsa mi urlò il suo nome, dal fondo del tunnel buio in cui mi ero cacciato: “Claudio!”. Mi precipitai a telefonargli, ma la sua voce mi arrivava incomprensibile, sovrastata da rumori di fondo: era in riunione coi tedeschi.
«Ti prego». Gli urlai. «E’ questione di vita o di morte». Non seppi trovare di meglio per convincerlo ad ascoltarmi.
«Calmati, Ale. Aspetta che esco dalla stanza…».
Gli raccontai tutto, d’un fiato, quasi urlando di rabbia.
La sua voce, un po’ calda e rassicurante, un po’ gelida e delusa, comunque mi rianimò. «Cavolo, Ale, ma studiatelo il codice di procedura! L’appello può essere spedito in via postale. Fa fede il timbro di deposito della busta. Scrivi due righe e corri alle poste di Piazza Cavour, chiudono alle diciotto e trenta. Poi fammi sapere, ma beviti un bicchiere d’acqua, mi raccomando».
“L’appello spedito in via postale?”. Questo proprio non l’avrei immaginato, ma accolsi la novità con un sussulto di speranza.
Mi buttai a sedere davanti al pc, con gli occhi fissi sull’orologio a muro. Credo di non avere mai scritto con tanta rapidità in vita mia. Sostenni che la querela fosse generica, che mancasse la prova del fatto, che il pubblico ministero non avesse prodotto gli estratti conto bancari e affastellai altre parole che neppure ricordo. Ne vennero fuori quattro pagine, con ampi ricorsi al copia ed incolla. Avevo concepito un atto illeggibile, che avrebbe fatto vergognare un laureando, tuttavia sufficiente a garantire la prescrizione del reato se fossi arrivato in tempo allo sportello postale.
Stampai ed imbustai alle diciotto in punto, e mi precipitai in strada. Pensai che fosse inutile infilarsi nel sottopasso della metro, i tempi d’attesa sarebbero stati incerti, molto meglio correre attraverso le vie e le piazze del centro. In fondo, correre a testa bassa, verso il traguardo, senza voltare la faccia, era la cosa che mi riusciva meglio. In piazza Diaz rischiai di essere investito da un taxi. Ancora oggi ricordo quel terribile rumore di freni. Arrivai all’ufficio postale di Piazza Cavour alle diciotto e ventisette. C’era un usciere che si apprestava a chiudere la porta. Mi lanciai verso uno sportello libero e vidi che la signora, dall’altra parte del vetro, stava spegnendo il pc. Il suo orologio segnava le diciotto e trenta, ma ebbe pietà di me e mise un dannato timbro sulla mia ricevuta.
Uscii dall’ufficio postale cinque minuti dopo, reggendo tra le mani il prezioso salvavita che metteva al sicuro uno studio legale e due carriere professionali.
La testa mi fumava ancora, come una ciminiera, eppure riuscii a concepire un pensiero nitido: “La giustizia, a volte, è questione di minuti, o forse addirittura di secondi. Avere un avvocato che resiste all’impepata di cozze o che sa correre come Mennea può fare la differenza tra il carcere e la libertà”.
Termine Perentorio
Sono perentorii i termini che, al loro spirare, determinano ineluttabilmente, ex se, la decadenza dal potere di compiere un determinato atto.
È tale il termine entro il quale viene imposto ad una parte processuale, dalla legge o dal giudice, il compimento di un atto, a pena di decadenza, con esclusione della possibilità di proroga, nemmeno sull’accordo delle parti (si pensi, a mero titolo esemplificativo, ai termini per l’impugnazione delle sentenze ex art. 585 c.p.p. nonché ai termini perentori fissati dal giudice per una produzione documentale o l’indicazione di un testimone). Un termine non perentorio, viene al contrario definito ordinatorio ed è derogabile.
A mero titolo esemplificativo, è ordinatorio, per giurisprudenza della cassazione, il termine entro il quale la persona offesa dal reato può formulare opposizione avverso la richiesta del PM di archiviazione della notizia di reato (l’opposizione è di fatto possibile sino alla emanazione del decreto di archiviazione della notizia di reato).
Appello (Penale)
È un mezzo di impugnazione ordinario col quale si investe altro giudice, tramite l’enunciazione di motivi di fatto e di diritto, del potere di effettuare un controllo sulla decisione di primo grado che si ritiene ingiusta ed erronea, ovviamente per riformarla in melius, in tutto o in parte.
È una fase solo eventuale, poiché l’istaurazione del giudizio di impugnazione è rimesso alla volontà sovrana della parte risultata soccombente nel giudizio di primo grado. L’appello non è previsto per tutte le decisioni di primo grado, diversamente dal giudizio di legittimità in Cassazione che è previsto in relazione a tutte le sentenze emesse dal giudice dell’appello ex art. 111 Cost.
Vi sono, in effetti, dei casi di inappellabilità delle sentenze di primo grado:
- sentenze rese in sede di patteggiamento ( art. 448 c.p.p.), ricorribili solo per cassazione. Tuttavia il PM può appellare le sentenze di patteggiamento qualora esse siano state emesse nonostante il proprio dissenso;
- sentenze predibattimentali di cui all’art. 469 c.p.p (nel caso in cui non vi sia stata opposizione di una parte);
- l’imputato non può appellare: le sentenze di proscioglimento perché il fatto non sussiste o per non averlo commesso ovvero le sentenze di assoluzione emesse all’esito di un giudizio abbreviato, salvo, in quest’ultimo caso, che si tratti di pronunce sull’imputabilità;
- il PM non può appellare: le sentenze di condanna rese in sede di abbreviato a meno che esse non modifichino il titolo del reato. Più in generale non può appellare sentenze di condanna salvo che: modifichino il titolo di reato; escludano una aggravante ad effetto speciale o irroghino una pena di specie diversa rispetto a quella ordinaria prevista per il reato;
- sentenze che dispongono misure di sicurezza (in tal caso i ricorsi vanno presentati alla Magistratura di sorveglianza);
- sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda ovvero le sentenze di assoluzione in relazione a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pene alternative;
Tali limitazioni sono da ritenersi legittime e non ledono il diritto alla difesa penale in giudizio poiché la tutela dell’appello, diversamente da quella innanzi alla Suprema Corte di Cassazione, non è stata direttamente costituzionalizzata.
Le sentenze del GIP o del GUP presso il Tribunale ordinario, del giudice di Pace e del Tribunale ordinario vanno appellate con ricorso alla Corte d’appello territorialmente competente. Le sentenze rese dal GIP o dal GUP presso la Corte d’assise ovvero dalla Corte d’assise vanno appellate con ricorso alla corte d’assise d’appello territorialmente competente.
L’appello presenta le seguenti peculiari caratteristiche:
- è solo parzialmente devolutivo, in quanto la cognizione del giudice dell’appello è limitata ai motivi d’appello concretamente enucleati e non già ad ogni e qualsiasi profilo del giudizio di primo grado ovvero a qualsiasi carenza della sentenza impugnata. Sarà quindi cura dell’avvocato diligente ricomprendere ad oggetto dell’atto d’appello tutti i capi della sentenza sfavorevoli all’imputato;
- è una revisione critica degli esiti del giudizio di primo grado, non essendo prevista in appello (salvo eccezioni) attività istruttoria;
- può consistere in una conferma o in una riforma, totale o parziale, dell’impugnata sentenza ovvero comportare, più raramente, l’annullamento della sentenza di primo grado (stante, nel caso, l’esistenza di una nullità insanabile nel giudizio di prime cure).
Oltre all’appello principale il nostro ordinamento prevede e disciplina anche quello detto incidentale, allorché una delle parti, che era legittimata ad impugnare la sentenza di primo grado, non l’abbia fatto nei termini e, a seguito dell’impugnazione di altra parte, presenti a sua volta appello entro 15 gg dalla notificazione o comunicazione dell’appello principale. Tuttavia l’appello incidentale è soggetto a limitazioni: può riguardare solo i capi della sentenza di primo grado impugnati da chi ha presentato l’appello principale; se chi ha presentato l’appello principale vi rinuncia o questo risulta inammissibile, perde efficacia anche quello incidentale (art. 595 c.p.p.).
Qualora sia il pubblico ministero a presentare gravame, vi è la possibilità di reformatio in pejus e dunque il giudice dell’appello potrà anche emettere una condanna più gravosa di quella disposta dal giudice di primo grado o condannarlo anche se costui sia stato assolto in primo grado. Viceversa, nel caso in cui abbia appellato solo l’imputato, potrà avere luogo, in alternativa alla integrale conferma della sentenza, solo una reformatio in melius (assoluzione da alcuni o da tutti i capi d’imputazione, ovvero riduzione della pena irrogata in prime cure, conncessione dei benefici di legge della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel casellario giudiziale etc).
In taluni casi (anche su richiesta di parte e se il giudice lo ritiene strettamente necessario) potrà essere rinnovata in appello l’istruzione dibattimentale, sia in caso di rito camerale sia in caso di rito ordinario. Trattasi di ipotesi eccezionale e relativamente infrequente, riservata ai giudizi relativamente ai quali risulta palese una carenza nell’istruttoria di primo grado (mancata assunzione di una prova decisiva, contrasto tra dichiarazioni testimoniali risolvibile solo con un confronto tra i dichiaranti etc).
I termini per proporre appello (così come ricorso in cassazione avverso le sentenze di secondo grado) sono disciplinati dall’art. 585 c.p.p. Tale norma va letta con particolare attenzione, poiché il termine per impugnare, rispettivamente di 15 giorni (A), 30 giorni (B) oppure 45 giorni (C) varia a seconda del termine che il giudice si è riservato per la motivazione.
Vediamo le singole ipotesi:
- lettura dell’intera sentenza contestualmente alla pronuncia del dispositivo ovvero pronuncia della sentenza in camerra di consiglio ex art. 127 c.p.p. In questo caso il termine entro cui proporre appello è pari a 15 giorni dalla lettura in aula ovvero dalla comunicazione in caso di udienza camerale ex art. 127 cpp;
- il giudice all’atto della lettura del dispositivo si riserva per la pubblicazione della sentenza comprensiva di motivazione un termine di 15 giorni ovvero non dice che termine si riserva. In questo caso il termine entro cui proporre appello è 30 giorni dallo spirare del termine riservato pari a giorni 15 (in tutto, dunque, 45 giorni);
- il giudice indica un termine per la riserva superiore a quello ordinario di 15 giorni. In questo caso il termine entro cui proporre appello è 45 giorni dallo spirare del termine riservato.
Se il giudice deposita la sentenza oltre il termine che egli stesso si è riservato i termini di cui ad (A) (B) e (C) non decorrono dallo spirare del termine per il deposito ma dal dì in cui la cancelleria ha dato al difensore notizia del deposito tardivo della sentenza.
L’atto d’appello va depositato presso la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata o alla detta cancelleria spedito con plico postale raccomandato (così è previsto dal codice di rito). In verità, in omaggio alla prassi consolidatasi in tempo di pandemia, l’atto d’appello viene depositato via pec con file allegato contenente il testo firmato digitalmente dal difensore.
A seguito della recente riforma della giustizia penale (c.d. riforma Cartabia), con l’atto d’appello l’imputato deve provvedere ad eleggere domicilio.
La riforma prevede altresì che l’appello debba essere deciso in camera di consiglio senza la partecipazione delle parti e dei loro difensori. Spetta all’avvocato, che intenda discutere oralmente l’appello, domandare, con istanza depositata in cancelleria entro il quindicesimo giorno successivo alla comunicazine della fissazione dell’udienza, la trattazione in presenza.
Sul punto la riforma pare recepire la prassi pandemica, che imponeva distanziamento sociale. Si tratta, a modestissimo parere di chi scrive, di uno degli spunti meno condivisibili della riforma, in quanto priva il processo penale, seppur limitatamente all’appello, del perno dell’oralità, che pareva viceversa assolutamente intramontabile.
Il difensore, di fiducia o d’ufficio, che risulta nominato all’atto del deposito della sentenza da appellare può sottoscrivere l’impugnazione anche senza procura. L’avvocato nominato successivamente dovrà unire all’atto una propria procura speciale. Il difensore dell’imputato assente potrà appellare solo con procura speciale rilasciata dal proprio assistito ed avente data successiva alla pubblicazione della sentenza da appellare (così Riforma Cartabia).
L’avvocato diligente avrà cura:
- Di rispettare i termini per il deposito dell’atto d’appello (v. art. 585 codice di procedura penale);
- Di strutturare l’appello con enucleazione di specifici motivi (ad esempio: mancata assunzione di una prova decisiva; difetto di motivazione in punto di ammissibilità e rilevanza di una prova; errata interpretazione di una norma di legge; mancato apprezzamento dell’efficacia probatoria della deposizione di un teste a discarico; mancata assunzione di perizia grafologica etc). Qualora non lo faccia l’appello potrebbe essere dichiarato inammissibile per genericità;
- Di richiedere, in via principale, in totale riforma della sentenza impugnata, l’assoluzione dell’imputato. In via subordinata sarà opportuno domandare, in parziare riforma della sentenza appellata, l’assoluzione del ricorrente da taluno dei capi d’imputazione a lui contestati (in caso di imputazione plurima), la riunione dei reati contestati sotto il vincolo della continuazione, la concessione di una circostanza attenuante negata in primo grado etc. In estremo subordine, in ogni caso, sarà bene chiedere sempre la riduzione della pena inflitta in primo grado e la concessione dei doppi benefici di legge, ove concedibili (sospensione condizionale della pena e non menzione della condanna nel casellario giudiziale);
- Di chiedere la trattazione orale dell’appello depositando via pec in cancelleria la relativa istanza entro il quindicesimo giorno successivo alla comunicazione della fissazione della udienza di discussione.
L’appello sarà dichiarato inammissibile per genericità allorchè non siano strutturati i motivi in relazione a specifici punti della sentenza impugnata, ma l’impugnazione rappresenti una generica critica del giudicato di primo grado ovvero consista nella mera riproposizione delle argomentazioni di fatto e di diritto già svolte in primo grado. Sul punto è consigliabile riportare gli stralci della sentenza di primo grado relativi ai motivi di appello, per rendere palese che la critica, attraverso i motivi, è specifica e non generica.