Diritto Civile e Processuale Civile
Giù le mani
Sedeva all’altro capo della mia scrivania, mordendosi il labbro inferiore.
Era molto diverso dall’uomo che, da dietro il bancone della sua farmacia, stretto nel camice bianco, ostentava un’espressione conciliante, dispensando sorrisi a tutti i clienti. Non aveva niente a che fare neppure col fervente devoto, raggomitolato sull’inginocchiatoio, davanti alla statua della Madonna dei sette dolori, nella nostra comune parrocchia.
Aveva il viso pallido, affilato come la lama di un coltello, gli zigomi sembravano più pronunciati del solito e la mascella tesa. «Sono due volgari ladri! Non si sono mai interessati di papà, neanche una telefonata a Natale. E adesso vogliono i miei soldi? Giù le mani!».
Vidi che le sue dita nervose stringevano, come artigli di rapace, un foglietto spiegazzato. Notai che si trattava di una lettera su carta intestata che già di suo se la passava piuttosto male e che di certo non sarebbe sopravvissuta più di dieci minuti in quella morsa feroce.
Gli feci segno di consegnarmi quel documento. Gli diedi una rapida scorsa e lo pregai di esporre il suo problema dall’inizio.
Sapevo già che suo padre, Piero Molinari, il fondatore della farmacia del quartiere chiamata Penta, era morto dieci mesi prima, dopo una lunga e sofferta malattia.
Mi disse di non avere ancora proceduto a formalizzare la denuncia di successione, benché ormai mancassero solo due mesi alla scadenza del termine.
Disse che la farmacia la portavano avanti, in esercizio provvisorio, lui, che possedeva il titolo di farmacista, e sua madre.
E ora, con quel foglio spiegazzato scritto da un ruvido avvocato, si facevano vivi gli altri due figli di papà Piero, nati dal primo matrimonio. Osavano pretendere la loro fetta di eredità e dunque la loro parte dei guadagni della farmacia che, nell’asse ereditario, sembrava essere il bene più prezioso.
«Avvocato Mayer, deve sapere che mio padre si era sposato con la ballerina di un locale a luci rosse. Il matrimonio è durato solo tre anni, quanto bastava per mettere al mondo quei due animali che ora si avventano sul piatto come se fossero i padroni di casa». Aggiunse Enrico Molinari, come se quegli apprezzamenti avessero un peso giuridico.
Afferrò i braccioli della sedia, con le mani che tornavano a somigliare ad artigli, e piegò il busto in avanti. «Quei due devono restare a mani vuote. Io non cerco un difensore, cerco una iena. La ricoprirò di denaro, avvocato. Giù le mani dalla mia farmacia!».
La mia mente fu attraversata, in un istante, da una quantità spaventosa di pensieri. Prima di tutto riflettei su quanto mi sarei trovato a disagio se avessi tentato di assumere l’aspetto digrignante di una belva. In verità, mi sentivo assai più simile ad un gattino da salotto.
Poi ripetei nella mia mente quelle parole dal suono tanto seducente: “La ricoprirò di denaro, avvocato”. E il simbolo del dollaro brillò a caratteri cubitali sullo schermo gigante della mia mente, con le sue suggestioni di lauti guadagni.
Avevo ventotto anni e venivo da ventisei travagliati mesi di professione, nei quali avevo cambiato studio per ben due volte; ventisei mesi segnati da avventure, di rado, e disavventure, molto più spesso. In quel tempo non avevo mai visto quattromila euro uno sull’altro. Sia con zio Arturo, sia nello studio dell’avvocato Paola Goggi avevo sempre dovuto accontentarmi delle briciole.
Forse ciò era dovuto alla mia faccia da bambino, che dimostrava assai meno della sua età, e all’indole pacifica. O forse era per via dei miei modi sempre troppo gentili. Così pensai che potesse essere finalmente giunto il momento del riscatto. Ne sarebbe stata felice la mia insaziabile fidanzata Claudia, che da anni vagheggiava il mitico viaggio a New York. Così mi dissi: “Forza, Ale. Cerca di fare bella figura. Non devi perdere questa pratica per niente al mondo”.
Enrico Molinari era conosciuto nel quartiere come un uomo schivo e solitario, senza una donna, senza amici, con vita sociale nulla, pronto a spegnere la lampada sul comodino alle ventuno di sera per essere lucido all’apertura della farmacia, alle prime luci del mattino. Tuttavia quella volta si rivelò un profluvio di parole. «Non ci posso credere. Quei due che non erano nulla per mio padre, così come lui non era niente per loro, senza arte né parte, senza un nome e senza dignità, possono rivendicare diritti sulla mia farmacia? Quella farmacia mio padre l’ha creata risparmiando anche i centesimi. È frutto del suo lavoro e del mio. Cosa vogliono da me quei farabutti?». Batté un pugno sulla scrivania, con tanta violenza da rischiare di ferirsi.
Quella rabbia mi stordiva, ma provai lo stesso ad essere chiaro, anche se il diritto di famiglia non era di certo la mia specialità. «Caro signore, purtroppo le norme sulla successione e sulla comunione ereditaria non sono scritte solo tenendo conto della profondità dei sentimenti e dei legami tra le persone e neppure del loro valore morale. Il diritto successorio si riduce ad una volgare operazione matematica di suddivisione di una torta in tante singole fette».
Gli occhi luciferini del mio interlocutore fiammeggiarono. «E, per pura curiosità, quanto sarebbe grande, per la legge italiana, la fetta di questi due signori?».
Non mi piaceva improvvisare. Non ero mai stato un giovane brillante e rapido di testa. Preferii consultare il codice civile. Poi presi carta e penna e suddivisi un grande cerchio in quattro aree distinte di uguali dimensioni. «Avendo suo padre lasciato in vita una moglie e tre figli, a sua madre spetta un terzo dell’eredità, i restanti due terzi vanno divisi in parti uguali: quindi due noni a ciascuno di voi figli».
Lui spalancò gli occhi, esterrefatto. «Quattro noni a due persone che non hanno mai appartenuto alla mia vita e che non hanno mai messo piede in farmacia?».
Presi tempo. «Occorrerà valutare anche altri fattori, come il denaro investito nell’attività, l’incremento di fatturato…».
«Mi creda, neanche un soldo bucato a quei farabutti…».
«Quei farabutti per la legge purtroppo vanno chiamati eredi».
«Eredi? Quelli sono mostri partoriti dalla prima moglie di mio padre!».
«Per la legge i figli sono tutti uguali!».
«Peccato! Ci dovrebbe essere una legge che disereda gli approfittatori!».
«Mi ascolti, il codice civile…».
«Lasci stare i codici! Quelli non sanno neanche a cosa serve una citrosodina. Lei lo sa chi sono quei due? Uno ha avuto problemi di droga, l’altro è gay!».
Mi sforzai di tenere a freno quella scarica di furore. Non ho mai amato le persone che etichettano il prossimo. Ho sempre creduto che fosse vile disprezzare le diversità e che si dovesse sempre concedere una seconda occasione a chi ha sbagliato.
Riuscii a rimanere impassibile, ma decisi di tagliare corto. «Caro Signore, io credo che le convenga trattare. Meglio pagare una somma, liquidare la quota di questi due e pensare agli affari della farmacia, nella memoria del suo caro padre».
Lui scosse la testa, come una belva ferita. «Vuol dire che dovrei calcolare il prezzo della mia azienda e dare a quei ladri quasi la metà del suo valore? Piuttosto mi sparo!».
«Voglio dire che è bene entrare nell’ottica di dover offrire una somma di denaro, ecco tutto».
Enrico Molinari si levò di scatto dalla sedia. «Ci devo pensare, avvocato».
«Più che giusto». Approvai, alzandomi io stesso.
Prima che la porta dell’ascensore si chiudesse, come un muro tra noi, separandoci per un tempo indefinito, magari per sempre, lui mi inquadrò nel mirino dei suoi occhi ardenti di collera. «Non so se lei è adatto all’incarico, avvocato. Vorrei fare un giro di telefonate, prima di ricontattarla. Temo che lei sia troppo educato e per bene, vista la situazione. Lei non mi sembra proprio un uomo di guerra!».
Rientrai in studio, a capo chino, con poche parole che mi rimbalzavano nella testa: “io non sono un uomo di guerra…”.
Pensai, in un sussulto di fierezza, che ero proprio stato geniale a scegliere di fare il penalista. Il penalista non giudica mai nessuno e pretende che anche per il proprio assistito viga il principio secondo il quale ciascuno è presunto innocente, fino a sentenza definitiva di condanna.
Eppure, quando guardai fuori dalla finestra della mia stanza, fui trafitto da un pentimento lancinante. Il simbolo del dollaro tornò a scintillare agli occhi della mia mente, così come la guida turistica di New York e il volto eccitato di Claudia, con una valigia in mano, davanti alla portiera aperta di un taxi.
Così decisi che quella pratica avrebbe dovuto essere mia ad ogni costo. Avrei setacciato il Web e la banca dati della cassazione, in modo da sapere tutto sulla successione nella gestione delle farmacie, in caso di decesso del proprietario.
Quella sera stessa avrei telefonato a Molinari, per convincerlo ad affidarmi l’incarico.
Affondai, per ore, lo sguardo nello schermo del pc. Mi appuntai che, alla morte del titolare di una farmacia, i suoi eredi possono esercitare provvisoriamente l’attività per non più di diciotto mesi, sei mesi oltre il termine massimo per la presentazione della denuncia di successione. Scaduto quel termine diventa impossibile cedere l’azienda a terzi.
Mi concentrai sui parametri per la stima del valore di una farmacia. Qualcuno scriveva che il criterio del multiplo del fatturato era da considerare ormai anacronistico.
Mi appuntai quattro concetti:
condizioni finanziarie di partenza
valore del magazzino
costi del personale
fidelizzazione dei clienti
Vidi che, nell’anno 2022, l’utile netto medio di una farmacia era pari a 60.000 euro.
Mi convinsi anche che il prezzo di vendita di una farmacia fosse in media stimabile sui 300.000,00 euro, potendo al massimo raggiungere il milione. La farmacia Molinari era particolarmente grande e ubicata nel centro urbano di una grande città, quindi il suo valore poteva abbondantemente superare la media.
Telefonai subito al mio potenziale cliente. Gli dissi che ero al suo fianco, che capivo le sue perplessità sul fatto di dover dare denaro a pseudo parenti spuntati dal nulla in una specie di metaverso incomprensibile. Lo pregai di portare tutta la documentazione rilevante: fatturato, spese sostenute, calcoli di utili e perdite. Gli feci capire che ero disposto ad andare anche in guerra, per evitargli di subire ingiustizie intollerabili. Alla fine della telefonata ero certo di avere conquistato la sua fiducia. Mi sembrò persino di nutrire il giusto disprezzo per quei due approfittatori che, dopo avere dimenticato i loro doveri di figli, si facevano vivi solo per passare all’incasso.
Fissammo, presso il mio studio, un incontro con la controparte per la settimana successiva.
Alla riunione, i nostri due avversari fecero la scena dei sordomuti. Finsero di non capire nulla di quanto dicevo e non pronunciarono una sola parola, limitandosi ad annuire, all’unisono, ad ogni considerazione del loro legale. L’avvocato di controparte, per mia sventura, si mostrò aggressivo oltre il dovuto. Più volte riuscii a rintuzzare le sue stoccate, ma dovetti alzarmi dalla sedia per invitarlo a calmarsi, quando lui osò puntare contro il mio cliente un indice accusatore. «Lei voleva fare il furbo, Molinari, protrarre all’infinito l’esercizio provvisorio e dilatare i tempi per la denuncia di successione. Lei voleva sottrarre ai miei assistiti la loro parte di eredità!». Poco ci mancò che il farmacista gli mettesse le mani al collo.
Alla fine scoprimmo le carte ed offrimmo 30.000 euro ad ognuno dei due, compresa la loro parte di utili per l’anno di esercizio provvisorio dalla morte del titolare.
Loro spararono alto, all’inverosimile. Valutarono la farmacia un milione e pretesero congiuntamente i quattro noni dell’intero valore.
Molinari non si trattenne e cominciò a gridare, come un ossesso e con le vene del collo che sembravano premere per schizzare fuori. «Neanche un soldo, ladri! Io faccio fallire la farmacia, piuttosto. Giuro che brucio le scritture contabili. Vendo tutto sotto banco e porto i libri in Tribunale. Vi pentirete di non aver accettato la mia offerta!». Afferrò il cellulare, con gesti concitati, fissando l’avvocato di controparte dritto negli occhi. «Glielo scrivo via mail, avvocato dei miei stivali, brucio le scritture contabili e vendo tutto sotto banco. A bocca asciutta dovete rimanere, razza di approfittatori!».
Non riuscii a frenare tanta veemenza. Loro se ne andarono, annunciando che avrebbero “fatto i loro passi”. Ed io rimasi a meditare su una parola: “GUERRA”. E quella parola mi fece sentire spaventosamente inadatto al mondo che mi circondava.
Per un mese non seppi più nulla di Molinari. Evitai accuratamente di servirmi della sua farmacia. Quando mia madre ebbe bisogno dell’antibiotico per debellare un’infezione alle vie urinarie, preferii andare alla farmacia della stazione centrale.
L’attività di consulenza offerta e l’assistenza a quella specie di burrascosa trattativa mi avevano fruttato duemila euro. Mi ritenni soddisfatto, anche perché potevo promettere a Claudia l’agognato viaggio a New York.
Lei ne fu entusiasta e mi coprì di elogi, proclamandomi il miglior fidanzato del mondo. Si mise persino a buttar giù un programma di soggiorno, che prevedeva canti Gospel, il Metropolitan, il Central Park e una partita del NBA.
Per parte mia mi dedicai con doppia soddisfazione alla mia specialità: il penale.
Dovevo difendere un inappuntabile signore di sessant’anni, accusato d’essere amministratore di fatto di una società fallita.
Stavo stilando il canovaccio per la discussione finale del processo, quando sentii suonare alla porta.
Era Molinari, bianco come un fantasma, pronto a mettermi in mano un rotolo di carte. «Avvocato, cos’è questo schifo?».
Nonostante provassi un certo fastidio, lo feci accomodare.
Lessi quei fogli con attenzione e gli spiegai che le nostre controparti avevano chiesto ed ottenuto dal giudice il sequestro conservativo della farmacia.
«Sequestro conservativo? E cosa sarebbe?».
Risposi mentre facevo una fotocopia di quelle carte. «Quando uno ritiene di avere un credito e ha paura che il debitore possa fare sparire i suoi beni può chiedere il sequestro di quello che trova per evitare di rimanere a bocca asciutta…evidentemente il giudice teme che la farmacia possa sparire da un momento all’altro».
«Sparire? E come potrebbe sparire una farmacia?».
«Nel ricorso c’è la prova che lei ha minacciato, con una mail inviata all’avvocato di controparte, di bruciare i documenti contabili, di vendere tutto sottobanco per far fallire la farmacia. Questo è un comportamento che secondo il giudice giustifica il sequestro».
Lui si morse un labbro. «Assurdo. Era una frase dettata dalla rabbia. Non è che hanno corrotto il giudice?».
“Eccolo l’ennesimo esempio di becero complottismo”. Pensai con stizza. «Ma no, si figuri».
Provai a rivolgergli uno sguardo bonario, nonostante lo trovassi l’uomo più antipatico del mondo. «Riprendiamo le trattative e chiudiamo questa brutta faccenda. È d’accordo?».
Lui si passò una mano sul mento, apparendo, per una volta, riflessivo. «Il sequestro può bloccare l’attività della farmacia?».
«Assolutamente no. Lei ne è stato dichiarato custode, può proseguire il lavoro di tutti i giorni. Il sequestro le impedisce solo di vendere l’attività».
Gli occhi gli brillarono. «Benissimo. Io non gliela do vinta a quei bastardi. Io la sera non esco mai, odio la confusione che c’è nei locali. Passerò le notti a frugare nelle carte. Tirerò fuori ogni spesa affrontata per la farmacia, ogni bollettino, ogni tassa, ogni fattura di ristrutturazione. Le garantisco che se ne andranno a mani vuote».
Quando ci stringemmo la mano, sulla porta, lui mi guardò con occhi eccitati. «Si ricordi: io e lei siamo due iene. E due iene, una accanto all’altra, sono invincibili».
«Abbiamo trovato l’accordo, avvocato. Fabio e Francesco entrano in società. Mia mamma è stufa. Saremo in tre a gestire la farmacia: noi tre fratelli».
Lo guardavo basito. Molinari mostrava un volto raggiante, niente a che vedere con l’espressione torva e incarognita dei nostri precedenti colloqui. Aveva recuperato l’aspetto gioviale e sorridente di quando dispensava farmaci e consigli dietro al bancone della sua farmacia.
Mi chiesi cosa diavolo fosse accaduto in quei due mesi in cui non c’eravamo visti e durante i quali io avevo vanamente atteso le fantomatiche carte recuperate nottetempo nella cantina di casa Molinari e quale fosse la ragione di quella incomprensibile mutazione genetica, cui assistevo piacevolmente sgomento.
Lui insisteva. «La pratica è chiusa, avvocato. Solo una stretta di mano, ma vale tantissimo. Adesso tocca a voi avvocati scrivere l’accordo».
Annuii e mi piegai verso di lui, con un sorriso. «La vedo soddisfatto e sono felice per lei. Posso sapere il motivo di un cambiamento di linea tanto radicale?».
Molinari sembrò felice di rispondere. «Abbiamo iniziato a frequentarci, avvocato. Sono due persone simpaticissime. Mi invitano ogni settimana al ristorante di pesce di un loro zio e io ci vado. Cucinano un branzino fantastico. Poi c’è la musica dal vivo e cantiamo. A fine serata facciamo sempre il trenino. La prossima estate andremo una settimana ai Caraibi, tutti e tre».
Estrasse il libretto degli assegni dal taschino. Venti secondi dopo, un magico rettangolo di carta da 3000 euro luccicava sulla mia scrivania. «Adesso tocca a lei, caro avvocato. Mi raccomando, preparateci un contratto in cui nessuno ci perda e di cui possiamo essere soddisfatti in tre».
Mi salutò sul pianerottolo con una frase che non dimenticherò mai. «Lei non sa, avvocato, com’è bello, a quarantacinque anni, scoprire di non essere solo».
Quando le porte dell’ascensore si chiusero rimasi a riflettere su quanto fosse insondabile il mistero della mente umana e su quanto il pozzo senza fondo del nostro bisogno d’amore fosse terribilmente simile ad un abisso.
Comunione ereditaria
Si parla di comunione ereditaria quando al defunto succedono più eredi. Costoro diventano comproprietari dei beni e contitolari dei diritti e dei debiti che fanno parte dell’asse ereditario. In caso di pluralità di eredi (ad esempio i figli ed il coniuge), ciascuno dei coeredi diventa contitolare di una quota dei beni e dei rapporti giuridici appartenuti al defunto. Il defunto può disporre dei propri beni con testamento (pur con alcuni limiti, come vedremo), in mancanza di disposizione di ultima volontà per calcolare le quote dei singoli eredi occorrerà ricorrere alle regole della successione legittima disciplinate dagli artt. 565 e seguenti del Codice Civile.
Circa il calcolo dell’entità del patrimonio spettante a ciascuno degli eredi legittimi, in difetto di testamento o in caso di annullamento dello stesso, giova riportare una tabella elaborata dal Comune di Trieste:
Chiamati a succedere per legge | Quote spettanti |
Solo il coniuge | Tutto |
Il coniuge e un figlio | Metà a testa |
Il coniuge e due figli | 1/3 al coniuge e 2/3 ai due figli (quindi un terzo a ciascun figlio) |
Il coniuge e più di due figli | 1/3 al coniuge e 2/3 a tutti i figli (quindi due noni a ciascun figlio) |
Solo il coniuge, fratelli e sorelle | 2/3 al coniuge e 1/3 ai fratelli e sorelle (da spartire in parti uguali tra costoro) |
Solo il coniuge fratelli, sorelle e genitori | 2/3 al coniuge, 1/3 agli altri (da spartire in parti uguali, tuttavia ai genitori almeno ¼) |
Solo un figlio | Tutto |
Solo più figli | Tutto suddiviso in parti uguali |
Solo un genitore | Tutto |
Solo due genitori | Metà a testa |
Solo genitori, fratelli e sorelle | Suddiviso in parti uguali (ai genitori almeno ½) |
Solo fratelli e sorelle | Tutto, suddiviso in parti uguali |
Solo i nonni | A metà tra nonni paterni e materni |
Solo bisnonni o altri ascendenti | Tutto a chi ha il grado di parentela più vicino |
Solo altri parenti | Entro il sesto grado al parente più vicino che esclude gli altri |
Va detto che qualora il de cuius decida di provvedere per il futuro alle proprie sostanze con testamento, la sua libertà di disporre dei propri beni non è assoluta, bensì limitata a una quota definita “disponibile”. Ciò in quanto quote fisse e predeterminate del patrimonio del defunto spettano per legge ai parenti più stretti. Quest’ultima scelta, finalizzata a proteggere i legami familiari più significativi, presta da sempre il fianco a numerose censure (si pensi al caso del genitore che ripudi il figlio omosessuale e che, in caso di testamento di quest’ultimo in favore del proprio compagno, si trovi ad ereditare immeritatamente la metà del patrimonio lasciato dal figlio stesso).
Per individuare le quote dell’asse ereditario destinate ai parenti stretti, detti eredi necessari o legittimari, e, conseguentemente, la porzione di patrimonio detta disponibile (ovvero possibile oggetto di testamento) giova ritrascrivere una tabella esplicativa elaborata dalla rivista del Notariato:
Solo il coniuge | 1/2 al coniuge come quota di legittima e 1/2 come quota disponibile |
Il coniuge ed un figlio | 1/3 al coniuge come quota di legittima, 1/3 al figlio come quota di legittima e 1/3 come quota disponibile |
Il coniuge e due o più figli | 1/4 al coniuge come quota di legittima, 2/4 ai figli come quota di legittima e 1/4 come quota disponibile |
Solo il figlio (senza coniuge) | 1/2 al figlio come quota di legittima e 1/2 come quota disponibile |
Solo due o più figli (senza coniuge) | 2/3 ai figli come quota di legittima e 1/3 come quota disponibile |
Solo ascendenti legittimi | 1/3 agli ascendenti come quota di legittima e 2/3 come quota disponibile |
Il coniuge ed ascendenti legittimi (senza figli) | 1/2 al coniuge come quota di legittima, 1/4 agli ascendenti come quota di legittima e 1/4 come quota disponibile |
E’ bene sottolineare come i fratelli e le sorelle non rientrino nella cerchia degli eredi necessari (o legittimari) rischiando di rimanere a mani vuole in caso di testamento in favore di terze persone, anche quando sono i parenti più stretti del defunto.
La comunione ereditaria può essere sciolta per accordo tra i compartecipi, che saranno liberi di determinare tra loro le modalità di spartizione dei beni comuni.
In difetto di accordo, colui che avesse intenzione di sciogliere la comunione sarebbe tenuto a citare gli altri comunisti in giudizio, ma la causa dovrebbe obbligatoriamente essere preceduta da una procedura di mediazione innanzi ad un organismo accreditato (a mero titolo esemplificativo il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati presso l’ufficio giudiziario competente).
Sequestro conservativo
Il sequestro conservativo è un provvedimento provvisorio e cautelare adottato dall’autorità giudiziaria su richiesta di parte, con cui il creditore impedisce al debitore di spogliarsi dei suoi beni di fatto vincolandoli a proprio beneficio, in anticipo sull’eventuale futuro pignoramento.
Per ottenere il sequestro dei beni del debitore, al fine di conservare la garanzia della soddisfazione del proprio credito, il creditore deve fornire una doppia prova:
- Deve anzitutto dimostrare che il credito vantato sia, almeno prima facie, ovvero ad una valutazione sommaria, astrattamente configurabile. In particolare deve risultare sussistente il cosiddetto “fumus boni iuris”, ovvero la non manifesta infondatezza della pretesa creditoria;
- Deve dimostrare che vi è un concreto e reale pericolo che, nel tempo necessario a far valere il proprio credito in via ordinaria, ossia con un lungo giudizio, il debitore possa spogliarsi di tutti i suoi beni allo scopo di sottrarli al pignoramento e quindi alle pretese del creditore. Tale prova dovrà essere rigorosa (si pensi alla minaccia concreta ed attendibile fatta dal debitore di dissipare il proprio patrimonio, ovvero all’incarico rilasciato ad un agente immobiliare per la vendita anche a prezzo vile della propria casa al mare etc).
Il sequestro perde efficacia quando con sentenza, anche non passata in giudicato, è dichiarato inesistente il diritto a cautela del quale era stato concesso.
Il provvedimento che dispone il sequestro perde altresì efficacia quando non è eseguito nel termine di giorni trenta dalla sua emanazione (art. 675 c.p.c.).