Diritto Civile e Processuale Civile
Il falsario
Non mi dimenticherò mai di quel pomeriggio d’autunno in cui vidi il mio amico Claudio piangere fino ad inzuppare il fazzoletto e singhiozzare tanto da doversi slacciare la cravatta, per non rischiare di soffocare.
Non ero abituato a vederlo così, lui che aveva sempre il sorriso stampato in faccia e che avrebbe saputo infondere coraggio persino ad un malato terminale.
Aveva la testa presa tra le mani, la scuoteva con rassegnazione ed era raggomitolato sulla sedia. Riusciva a mala pena a biascicare qualche parola. «Che vergogna…ho deluso mio padre…Tanto studio, tanto tempo buttato, per accorgermi alla fine di essere solo un fallito!».
Non capivo perché il mio amico ce l’avesse a morte con sé stesso; qualsiasi errore avesse commesso non meritava di autoinfliggersi quella tortura. Lui era sempre stato un maestro di empatia, incapace di far del male persino ad una mosca e tanta crudeltà verso sé stesso era degna del peggior masochista.
Lui per me era sempre stato un baluardo impossibile da abbattere. Aveva la cultura giuridica e la sicurezza in sé stesso che a me erano spesso mancate.
Lui mi aveva sempre protetto nelle difficoltà, come un fratello maggiore, anche se avevamo la stessa età.
Lo aveva fatto anche in università quando, all’esame di diritto penale, mi aveva suggerito di non farmi interrogare dall’assistente occhialuta e con un tic nervoso che la portava a scuotere di continuo la testa e che aveva pronunciato il mio cognome un istante prima. «E’ una sadica. Quella boccia tutti». Lo avevo ascoltato e mi ero presentato al Professore titolare della cattedra dieci minuti dopo, fingendo di venire dal bagno. Aveva funzionato! Avevo superato l’esame con la lode, cosa che non mi era mai successa prima. Mentre quella megera di assistente aveva fatto piangere di rabbia lo studente ch’era stato chiamato al mio posto.
Quel pomeriggio di fine novembre io mi sentii impotente ed impossibilitato a restituirgli il favore, per quanto lo desiderassi con tutto me stesso.
Claudio continuava a darsi dello stupido ed io assistevo sgomento al suo sfogo autodistruttivo. Ero solo capace di ripetere frasi banali, del tipo: «Non è vero. Smettila». La mia voce era tanto bassa e tremante che ebbi il sospetto di non essere neppure sentito.
Sulla scrivania giaceva un foglio, che sembrava occhieggiare tutt’attorno, con vergogna, sperando di non esistere. Ricordo le parole scritte con grafia minuscola ed ordinata:
TESTAMENTO OLOGRAFO
IO RICCARDO AMETRANO NATO A NAPOLI IL 22.03.1932 LASCIO TUTTO IL MIO PATRIMONIO ED ISTITUISCO MIO EREDE UNIVERSALE IL MIO VICINO DI CASA SIGNOR GIUSEPPE BIANCHI RESIDENTE IN MILANO VIA SCANINI 67
Seguiva una firma goffa, incerta e tanto gigantesca da occupare la restante parte del foglio A4. Chiunque avrebbe capito che la mano che aveva apposto la firma, forse appartenente ad un ipovedente, non fosse la stessa che aveva compilato la prima parte del documento.
In effetti il notaio di famiglia s’era rifiutato di pubblicare il testamento. «Mi spiace» aveva sussurrato con imbarazzo alla presenza del furibondo candidato erede «quest’atto è radicalmente nullo, perché carente del requisito della autografia». Una frase tecnica, un po’ ampollosa, per dire che colui che aveva firmato l’atto era persona diversa da quella che aveva scritto la disposizione testamentaria nelle righe precedenti.
Il cliente era impallidito ed aveva afferrato i braccioli della poltrona, prima di rivolgersi a Claudio, con la mascella indurita dall’ira. «Avvocato, o rimedia a questo disastro o me la paga cara! Io quei soldi li voglio tutti, dal primo all’ultimo. O li avrò dalla banca o li avrò da lei, l’avverto!».
Gli misi una mano sulla spalla, quando ebbe terminato quell’angosciante racconto. «Coraggio, Cloud. Vedrai che troveremo il Notaio che te lo pubblica».
«E come faremo? Lo corromperemo? Lo ipnotizzeremo?».
«Ci riusciremo, tranquillo. C’è una sola cosa che noi due insieme non siamo riusciti a fare?».
Lui scosse la testa con lentezza, mentre si asciugava le lacrime. «Non c’è niente da fare. Siamo davanti ad un caso evidente di nullità. Sarebbe bastato leggere il codice civile e mi sarei ricordato che il testamento olografo deve provenire da un’unica mano, quella del defunto. Sono stato uno stupido!».
A quel punto ebbi un moto di protesta. Quelle parole mi sembrarono davvero ingiuste. «Tu non sei uno stupido. Proprio per niente! Mettiti in piedi e combatti!».
Guardai fuori dalla finestra della camera del mio amico. Il giardino era coperto da un letto di foglie gialle che scintillavano al riverbero di un pallido sole, prossimo al tramonto. Il muraglione di cinta era crepato in più punti, come un volto inespressivo ferito da una lama di coltello.
Quella visione, in uno strano modo, mi scosse, riportandomi alla realtà. Ero sempre rimasto insensibile alle drammatizzazioni. Mi piaceva ridimensionare i problemi. “Che esagerazione!” pensai “Si tratta di un piccolo errore privo di conseguenze, dopo tutto. Non è mica morto qualcuno”.
Sottoposi il mio amico ad una raffica di domande, allo scopo di dimostrare che la situazione non era poi tanto grave. Tuttavia, ad ogni risposta, il quadro diveniva più cupo e preoccupante, sempre più simile alla peggiore legge di Murphy.
Claudio, come me, era agli inizi della sua carriera professionale e, lavorando molto spesso per suo padre, non aveva ancora stipulato un contratto d’assicurazione professionale. Dunque, in caso di negligenza avrebbe dovuto risarcire i danni procurati ai clienti di tasca propria. Suo padre gli aveva intestato da poco più di un anno la villetta di famiglia, sulle sponde del lago di Como. Quella grande casa gialla, dai balconi fioriti e dal tetto spiovente, la conoscevo bene, perché ci avevamo fatto un bel po’ di grigliate, con gli amici dell’università. Ora su quella villetta aleggiava lo spettro di un mostruoso ed inesorabile attacco: il pignoramento immobiliare.
Giuseppe Bianchi, il tizio che vedeva vacillare il suo trono da erede a causa di quel pezzo di carta scritto da una mano di troppo, non era affatto un tipo accomodante, tantomeno gentile e simpatico. A sentire Claudio aveva piuttosto il ghigno aggressivo del cane da guardia. Era vessato dai creditori, per il vizio del gioco, ed era assetato di denaro. Quell’eredità rappresentava l’ancora di salvezza, davanti alla prospettiva di un naufragio esistenziale.
Il Signor Ametrano era morto un mese prima e dunque non avrebbe potuto rifare quello scritto, né rivolgersi ad un notaio per farlo pubblicare.
Il suo vicino di casa non era un parente del defunto e quindi in assenza di testamento non avrebbe ereditato neppure un centesimo.
Sperai di aver trovato una via d’uscita, in quel caso di sfortuna oceanica, e mi sforzai di sorridere. «Si trattava di un vecchio calzolaio con la faccia da sfigato che abitava in affitto, non è così? Non credo che abbia fatto una vincita milionaria al totocalcio. Scommetto che da parte non aveva un soldo. Niente soldi, niente danno. Ti pare?».
Claudio mi sventolò, davanti ad occhi increduli, un estratto conto della Banca Popolare di Milano. Il saldo attivo era cerchiato con l’evidenziatore: 352.000 Euro! Roba da non credere! Aveva più soldi quel tipo di un sacco di laureati mia conoscenza.
Afferrai quel foglio, certo d’avere letto male, ma constatai con orrore che non mi ero sbagliato affatto. La cifra era proprio quella, da capogiro, degna di un professionista affermato molto più che di un artigiano in pensione. Riflettei con amarezza che il vegliardo doveva aver vissuto come uno spilorcio che risparmia anche i centesimi, per mettere da parte un inutile tesoro da consegnare a qualche vicino di casa inseguito dai creditori.
Guardai dritto negli occhi il mio amico. «Un uomo che ha così tanto denaro può permettersi di pagare un notaio, accidenti. Il testamento olografo è roba da poveracci! Quell’uomo dall’aldilà ti dovrebbe chiedere scusa per averti cacciato in questo guaio».
Lui fece un sorriso amaro. «Questo non è di nessun aiuto, Ale. Può solo aumentare le mie recriminazioni».
Purtroppo aveva ragione. Occorreva trovare una via d’uscita e mi sforzai di pensare alle alleanze su cui potevamo contare. Il mondo è pieno di gente disposta a dispensare aiuto ad un giovane in difficoltà, anche se magari solo per vanità.
Mi venne in mente un amico di papà, il Notaio La Torre. Era un uomo ricchissimo che non faceva niente per nasconderlo e che si era fatto costruire una sorta di castello sulle montagne del Trentino.
In quella specie di magione riuniva stuoli di amici e di persone in vista, tra cui mio padre, alle quali proponeva, dopo un rinfresco ai bordi della piscina, lunghe scarpinate in montagna, fino a raggiungere la sommità di un dirupo, al solo scopo di dimostrare a tutti quanto lui fosse in forma. Quell’uomo pieno di sé non aveva mai conquistato la mia simpatia. Lo trovavo tronfio e sprezzante, ma era la persona più adatta a tirare fuori dai guai il mio amico.
«Vedrai che ti aiuterà» annunciai con voce esultante, esagerando alquanto. «E’ una specie di secondo padre. Possiamo contare su di lui».
Mi decisi a chiamarlo subito, per fissare un appuntamento. Aveva lo studio nel centro di Milano, a due passi dal Duomo. Sembrò felice di sentirmi. Disse che era pieno di impegni ma che per me avrebbe fatto un’eccezione. Mi convocò in studio per il sabato mattina. «Il tempo sarà brutto» borbottò. «Allora meglio restare a Milano a lavorare. In Trentino ci mando mia moglie».
Claudio si lasciò andare al sorriso sfinito del superstite di un naufragio. «Grazie, Ale. Sei un vero amico. Mi accompagnerai?».
Lo rassicurai: ci sarei stato. Mi parve sollevato e gli proposi di bere una birra, al pub sotto casa sua, visto che si approssimava l’ora dell’aperitivo.
Il sabato mattina fummo puntuali.
Superammo il portone del palazzo signorile che affacciava sul corso, alle dieci in punto.
Fummo introdotti nella stanza del Notaio da una solerte segretaria.
La Torre sembrò molto felice di vedermi e volle abbracciarmi. «Come sta tuo padre?».
Non seppi cosa rispondere e lui abbassò gli occhi per l’imbarazzo. Poi mi batté una mano sulla spalla con affettazione. «Vedrai che seguirai le orme di tuo zio. Il futuro è tuo. Sarai un grande avvocato».
Quella profezia infondata mi fece sentire gravato da una responsabilità eccessiva, mentre il Notaio sprofondava con pesantezza nella sua poltrona di pelle.
Alla fine si decise ad allungare la sua robusta mano. «Coraggio ragazzi, vediamo questo testamento. Ci vorranno pochi minuti».
Claudio glielo porse con gesti incerti. Sembrò persino sul punto di confessare la sua colpa, ma io lo fulminai con lo sguardo.
Il Notaio scrutò il documento da cima a fondo, con gli occhiali calati sulla punta del naso e sembrò cambiare umore all’improvviso.
Dapprima corrugò la fronte, poi inarcò le sopracciglia, disegnando un’espressione torva, tra lo stupito ed il risentito. Quindi si passò una mano sul mento, scuotendo la testa. Infine squadrò il mio amico con occhi severi. «Che cosa sarebbe, questo?».
Claudio sembrò perdere tutta la già poca sicurezza che aveva tentato di ostentare senza successo. Biascicò poche parole, quasi incomprensibili. «Un testamento olografo…o almeno…un t…».
Il Notaio fece cadere il foglio sulla scrivania di massello. «Decisamente no, ragazzo. Questo è tutto, tranne che un testamento olografo».
Mentre Claudio sprofondava in un mutismo sconsolato, io mi diedi un tono e tentai di giocare l’ultima carta, quella della compassione umana. «Dottor La Torre, siamo qui per chiederle aiuto. Il mio amico è nei guai».
Mi accorsi presto che il mio dilettantistico tentativo di ottenere pietismo in cambio di tardiva sincerità non aveva prodotto alcun risultato, anzi, aveva finito per peggiorare le cose.
Il Notaio crollò il capo di lato e mi fulminò con due occhi implacabili, che sembravano fissare, dall’alto in basso, un essere subumano, inferiore, indegno di qualsiasi forma di solidarietà. «Mi hai molto deluso, Alessio Mayer». Piegò il viso in avanti, nell’evidente tentativo di violare il mio spazio difensivo, dardeggiandomi con due occhi piccoli e furenti. «Che cosa dovrei fare con questo foglietto, secondo te?».
Deglutii, tentando di non indietreggiare troppo, ma di salvare la dignità. Lo fissai negli occhi, da pari a pari, perché, pur in quella disgraziata emergenza, non riuscivo a sentirmi inferiore a quel capolavoro di supponenza umana. «Niente che lei non possa o non voglia fare, Signor Notaio».
La Torre si alzò di scatto, dirigendosi con decisione verso la finestra. Avvicinò le persiane, come se fosse stanco d’essere cullato dalla luce bianca del mattino. Quando si volse verso di noi non sembrò aver sbollito la collera «Ditemi la verità, da quanti Notai siete stati prima di implorare aiuto dall’amico di famiglia? Quanti ne avete consultati prima di me?».
«Un paio». Sussurrò il mio amico, mostrando, se possibile, di saper mentire ancor meno di me. Avrei voluto rifilargli un calcio in uno stinco, ma mi trattenni, posto che il misfatto era già stato compiuto.
«Andatevene!». Sibilò l’uomo, a bassa voce. Tuttavia quella parola rimbalzò nella stanza con la virulenza di un anatema lanciato dal cavaliere oscuro di qualche racconto per ragazzi.
Non ci pensai due volte e mi alzai in dalla sedia, facendo segno a Claudio di seguirmi. Il mio progetto aveva riportato un completo insuccesso e la brutta figura rimediata sarebbe forse giunta alle orecchie di mia madre.
Il Notaio sembrò cogliere la mia preoccupazione e, prima che sparissi oltre l’uscio della sua stanza, mi lanciò la ciambella di salvataggio di una frase tranquillizzante. «Non dirò niente a tua madre. Ne sarebbe molto delusa».
Quando fummo atterrati sul marciapiede del corso, dopo avere disceso le ripide scale di pietra di quel palazzo inospitale senza guardarci alle spalle, sentii l’esigenza di non darmi per vinto. Claudio sarà stato pure un genio ma di certo era molto dietro di me sulla strada dell’orgoglio, della capacità di combattere e di stare a galla per il rotto della cuffia.
Davanti agli occhi della mente mi apparve una sagoma imponente, severa ma, per una volta, tranquillizzante: quella del grande avvocato Arturo Battaglia, mio zio.
Il mio mentore ci ricevette un’ora dopo che gli ebbi telefonato, per quanto avesse programmato di incontrare l’avvocato di controparte in una complessa trattativa finalizzata ad evitare una causa milionaria. Pronunciò con il solito autocompiacimento il suo motto preferito, una sorta di marchio di fabbrica della casa. «Farei di tutto per mio nipote ed i suoi amici».
Trovai quello slogan improntato ad una retorica insopportabile, ma feci buon viso a cattivo gioco, posto che avevamo bisogno di lui.
«Grazie mille, zio».
Lesse il maledetto foglio che rischiava di segnare il fallimento professionale di Claudio coi suoi occhi da rapace, quasi senza dargli importanza, ma all’angolo della bocca gli spuntò un ghigno di superiorità.
Poi s’impose un’aria solenne, stringendo più forte la sigaretta spenta tra le labbra, e guardò Claudio dritto negli occhi.
«Ci sono parenti che possono impugnare il testamento?».
«Nessun parente».
Allora mio zio decise di non soffocare più il suo sorriso sornione. «Per fortuna, come sospettavo…» ed allungò al mio amico carta e penna. «Scrivilo di nuovo e firmalo, come se lo facesse il defunto. Scrivilo coi caratteri incerti di un vecchio, con la mano un po’ bloccata dall’artrite. Ritmo lento e forte pressione sulla carta, mi spiego? Fallo adesso, qui, davanti a me o non ne avrai mai più il coraggio».
Claudio scosse la testa, con aria attonita, e mio zio si produsse in una vera arringa a sostegno della propria idea: «E’ meglio salvare il tuo culo o obbedire a scrupoli inutili? È meglio riparare gli effetti di un errore o suicidarsi, morendoci dentro? È meglio rispettare la volontà di un povero vecchietto o trincerarsi dietro le proprie paure? È meglio la giustizia concreta o quella astratta degli intellettuali? Se sei abbastanza sveglio e trovi la risposta giusta ad almeno una di queste domande, allora sei pronto a riempire quel foglio bianco».
Claudio rimase a bocca aperta, immobile per qualche secondo, con la mano sospesa nel vuoto, prima di decidersi ad impugnare la biro.
Il ruolo svolto da mio zio risultò decisivo, anche quella volta, come sempre.
Un notaio di sua fiducia pubblicò il falso testamento olografo di Claudio. In verità, alla fine, quel documento scottante risultò un vero e proprio falso d’autore perché nessuno avrebbe mai potuto dubitare del fatto che il tratto di penna con cui era stata redatta la disposizione testamentaria provenisse dalla mano rattrappita di un vecchio.
Giuseppe Bianchi, dunque, poté presentare al direttore di Banca un fascicoletto con tutti i documenti necessari a sbloccare i fondi dell’eredità. Nel giro di poche ore, con un giroconto, fu in grado di bonificare a sé stesso l’esorbitante importo di € 352.000,00 .
Claudio era felicissimo per lo scampato pericolo e volle offrirmi un aperitivo nel suo locale preferito, il pub con le tendine rosse, di fronte al nostro studio.
Sollevò il calice, colmo di prosecco, con un largo sorriso. «Tuo zio è un grande!».
In cuor mio dovetti dargli ragione, anche se l’ultimo sorso rischiò di andarmi di traverso.
Il testamento olografo
Il testamento olografo è definito e disciplinato dall’art. 602 del codice civile: è il testamento scritto per intero, datato e sottoscritto di mano dal testatore, senza l’assistenza di un notaio.
Rappresenta una alternativa, più economica ma altresì maggiormente aleatoria e vulnerabile, del testamento pubblico.
Il primo requisito del testamento olografo è, come suggerisce lo stesso nome, l’olografia della scrittura. Il documento, pertanto, deve essere scritto in ogni sua parte di proprio pugno dal testatore, con qualsiasi mezzo scrittorio e su qualsiasi materiale che sia idoneo a conservare traccia della scrittura. La mancanza di tale requisito, ad esempio in caso di testamento scritto per mano di un terzo ovvero con l’ausilio di una macchina da scrivere, di un computer o di altri mezzi meccanici, comporta la radicale nullità del testamento (Il Notaio incaricato della pubblicazione avrà, in tal caso, l’onere di rifiutarne la pubblicazione).
Secondo la dottrina maggioritaria, la scrittura deve avere il carattere della abitualità, intendendosi per scrittura abituale qualsiasi scrittura che sia usata con frequenza dal testatore e sia tale da individuarne la personalità.
Il secondo requisito previsto per la validità del testamento olografo è rappresentato dalla datazione. La scheda testamentaria deve contenere l’indicazione del giorno, del mese e dell’anno in cui viene confezionato il documento stesso. La mancanza della data comporta l’annullabilità del testamento olografo. L’art. 606, infatti, non menziona tale requisito tra quelli previsti a pena di nullità del negozio giuridico. L’azione di annullamento, esperibile da chiunque vi abbia interesse, si prescrive in cinque anni a decorrere dall’esecuzione delle disposizioni testamentarie (art. 606 ultimo comma c.c.).
La data è necessaria per stabilire quale testamento prevalga, in caso di una molteplicità di versioni scritte nel tempo dallo stesso testatore, oltre che per verificare la capacità dello stesso. Si pensi al caso che al testatore sia stata diagnosticata una malattia psichicamente invalidante e che risulti decisivo accertare se questa sia sorta anteriormente o posteriormente alla data indicata nella scheda testamentaria.
Qualora la data contenga un errore, la giurisprudenza ha ammesso la validità della scheda testamentaria qualora, dall’atto stesso, sia possibile risalire alla data effettiva (ciò per il principio della conservazione dell’efficacia dei negozi giuridici che caratterizza il nostro diritto civile).
Il codice civile statuisce altresì che il testamento debba essere sottoscritto dall’autore dell’atto. La sottoscrizione deve essere autografa ed essere apposta alla fine del documento; può anche non contenere per esteso il nome ed il cognome ma deve, in ogni caso, essere idonea a designare con certezza la persona del testatore (art. 602 c.c.). L’art. 606 c.c. prevede la nullità insanabile dell’atto (e non la mera annullabilità come nel caso di carenza di datazione) in caso di mancanza del requisito della sottoscrizione.
Il testamento deve indicare quali quote del patrimonio, ovvero quali beni determinati, siano destinati a ciascuno degli eredi e legatari istituiti con la scheda. Deve perciò avere un contenuto comprensibile e non palesemente contraddittorio.
Nel caso in cui il testatore non abbia rispettato le quote riservate dalla legge ai cosiddetti legittimari, ovvero agli eredi necessari in virtù dello stretto legame di parentela che li unisce al de cuius (coniuge, figli ed ascendenti, questi ultimi solo nel caso in cui non vi siano figli – art.536 e seguenti c.c.), questi, o i loro eredi o aventi causa, possono chiedere la reintegrazione della propria quota, così come rinunciare a tale azione, rispettando la volontà del testatore. Nel caso in cui non vi siano legittimari, il testatore potrà decidere in assoluta libertà a chi assegnare l’universalità del suo patrimonio (si dirà allora che la quota disponibile è illimitata). Si definisce quota disponibile la parte di patrimonio di cui il testatore può liberamente disporre, al netto delle quote riservate ai parenti più stretti (c.d. legittimari o eredi necessari).
A norma dell’art. 591, comma 3, codice civile, «nei casi di incapacità preveduti dal presente articolo, il testamento può essere impugnato da chiunque vi ha interesse. L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie».
E’ bene precisare, pur se in modo molto sintetico, la differenza tra erede e legatario.
L’erede è colui che succede al defunto nella totalità del patrimonio ovvero in una quota dello stesso. Il legatario è colui che riceve dal de cuius non già la totalità ovvero una quota dell’asse ereditario, bensì specifici e determinati beni analiticamente indicati nella scheda testamentaria.
La distinzione, all’apparenza agevole e di facile comprensione, può risultare assai difficoltosa nella prassi. Si pensi al caso in cui Tizio sia nominato genericamente erede ma a Caio, formalmente mero legatario, vengano lasciati beni di tale numero e valore da rappresentare addirittura la quasi totalità del patrimonio del de cuius. In tal caso è ovvio che ad una valutazione puramente linguistica e formale andrà preferita una interpretazione che tenga conto della sostanziale volontà del testatore di lasciare una rilevante fetta del proprio patrimonio a Caio (che, pertanto, dovrà essere considerato erede e non già mero legatario).
La legge notarile prevede che chiunque sia detentore, a qualsivoglia titolo, di un testamento olografo debba portarlo alla pubblicazione presso un Notaio senza ritardo.
Il testamento olografo, senza la debita pubblicazione notarile, è da ritenersi una mera dichiarazione d’intenti priva di efficacia giuridica e pertanto non opponibile ai terzi. Il testamento olografo non pubblicato può essere liberamente eseguito dagli eredi ma non è allegabile in giudizio e quindi non è idoneo a fondare una contesa giudiziaria.
Ai fini della pubblicazione occorrerà consegnare al Notaio incaricato dell’atto il testamento olografo e l’estratto per riassunto dell’atto di morte del de cuius.
Oltre all’onorario del Notaio il richiedente la pubblicazione dovrà pagare l’imposta di bollo pari ad € 45,00 e l’imposta di registro pari ad € 200,00 .
L’avvocato diligente avrà cura di suggerire al proprio assistito, che a lui si rivolga per avere delucidazioni sul testamento olografo, di declinare le propre disposizioni di ultima volontà presso un notaio, specie in caso di patrimonio di ingente valore.
Il testamento olografo, in effetti, a fronte del pregio di esonerare il testatore da spese (peraltro non eccessive), presta il fianco ad innumerevoli problematiche. A tal proposito, a titolo meramente esemplificativo, si citano le seguenti:
- Contestazione sull’autografia dello scritto o della sottoscrizione (con ricorso, nei casi estremi, a lunghe contese giudiziarie incentrate sull’assunzione di perizia grafologica). Si aggiunga che la grafologia è una scienza nobile che tuttavia presta il fianco ad alcune censure (infatti tra gli operatori del settore vi sono contrasti sulla metodologia da seguire);
- Contestazioni circa la capacità del testatore al momento della redazione della scheda testamentaria;
- Incertezza sulla effettiva datazione non certificata, sino a querela di falso, da un pubblico ufficiale;
- Esibizione/produzione di ulteriori testamenti olografi, con conseguente incertezza su quale sia la scheda destinata a prevalere, in quanto redatta per ultima;
- Smarrimento dell’originale del testamento olografo (o sua distruzione) da parte del custode dello scritto;
- Alterazione o distruzione del documento da parte dell’erede legittimo pretermesso (ovvero escluso dalla successione);
- Difficoltà di comprensione di disposizioni testamentarie complesse, redatte senza l’assistenza di un Notaio o di altra persona qualificata;
- Errori nella redazione che inficino la sua validità;
- Alterazione del documento ad opera di un terzo. Pertanto, ai fini della garanzia della diligente custodia del documento e del suo ritrovamento al momento del decesso del testatore, è consigliabile, una volta redatta la scheda testamentaria, che la stessa sia depositata presso una persona di fiducia, preferibilmente il Notaio che poi provvederà alla pubblicazione del testamento stesso.