Diritto Penale
Ora basta
La strada era deserta come un albero spoglio, la mattina che arrestarono zio Arturo.
Era il ventisette dicembre del mio primo anno da avvocato e faceva freddo. Dal cielo cadevano soffici fiocchi di neve.
Lo studio era aperto solo per il disbrigo di pratiche amministrative, per il riordino dei fascicoli e per la compilazione dell’agenda giudiziaria dell’anno successivo. I colloqui coi clienti e gli appuntamenti erano stati rinviati a dopo il sei gennaio. Il telefono aveva già squillato quattro volte, sempre a vuoto. Ciò che accadde sconvolse la routine di una grigia mattina semifestiva, durante la quale nulla di eclatante sarebbe dovuto succedere.
Due agenti in borghese, dallo sguardo inafferrabile, sottili come ombre, si materializzarono alla porta del nostro studio, pochi minuti dopo le undici. Dovevano notificare un’ordinanza applicativa di misura cautelare in carcere. Il nome ed il cognome dello zio erano stampati in grassetto, subito dopo l’intestazione dell’ufficio del giudice per le indagini preliminari, con esatte indicazioni su domicilio e data di nascita. Sembrava non esserci alcun errore possibile sulle generalità del destinatario di quell’ordine di carcerazione: per lo zio stavano dunque per aprirsi le porte del carcere.
Il sangue mi si gelò nelle vene e venni scosso da un brivido mortale che sembrava scompaginare, in un diabolico colpo di vento, il libro dei miei sogni.
Nonostante il terrore si fosse impadronito dei miei muscoli, riuscii a far correre lo sguardo sul contenuto di quel documento, dalla prima all’ultima riga. Mi concentrai sul capo d’imputazione: articolo 73 DPR 309 del 1990, spaccio di droga (1). Rimasi senza fiato e lanciai uno sguardo dolente oltre la finestra della stanza. Il muraglione del carcere, più desolante del solito, si elevava, minaccioso come un baluardo, a pizzicare il cielo.
Poche parole scintillarono, lettera per lettera, su un display immaginario dentro la mia testa: “LO ZIO IN CARCERE” e poi altre altrettanto angoscianti “FINE DELLO STUDIO BATTAGLIA” .
Arturo contrasse la mascella, come un pugile che si prepara a sferrare il colpo. «Deve esserci un errore. Non può essere altrimenti».
L’agente che aveva proceduto alla notifica dell’ordinanza non indietreggiò di un millimetro. «Mi spiace, avvocato Battaglia. Cerchiamo proprio lei».
Lo zio mi mise a fuoco, nel mirino dei suoi occhi impassibili. «Ale, non devi preoccuparti di niente. Chiarirò tutto all’interrogatorio di garanzia. Qualcuno mi vuole mettere i bastoni tra le ruote. Corri a preparare una delega. Ti nomino mio difensore di fiducia, subito. La farò pagare a chi mi ha calunniato, puoi giurarci!».
Mentre mi sedevo al computer per scrivere la procura difensiva, coi gesti meccanici di un automa, vidi che l’altro agente perlustrava lo studio palmo a palmo, aprendo cassetti, rovistando tra le carte, frugando nei fascoli, consultando le agende e afferrando dei pacchetti sigillati, chiusi in una credenza che ero convinto nessuno avrebbe mai aperto.
Dal corridoio le parole di mio zio risuonarono stentoree, come sempre. «Agente, per favore. Mi lasci qualche minuto. Voglio conferire col mio difensore e dare disposizioni sull’attività di studio».
«Nessun problema, faccia pure. Mi deve garantire che non farà sciocchezze. Non ho intenzione di usare le manette».
La voce dello zio questa volta vibrò di rabbia. «Fare sciocchezze? Ma le pare? Io sono un avvocato, per Dio. Non si è mai visto un avvocato in carcere prima di un processo. Chi ha scritto quest’ordinanza non conosce il codice di procedura penale, glielo garantisco!».
«Chiarirà tutto col magistrato. Io devo solo fare il mio dovere. Mi spiace».
Lo zio irruppe nella mia stanza, per impartire ordini a mitraglia. «Vienimi a trovare domani mattina in carcere, subito dopo il deposito della procura. Prenditi cura dello studio e chiedi il rinvio di tutte le udienze. Non voglio che ti assumi responsabilità per le pratiche in corso, non sei ancora pronto. Manda subito Ottavio in procura a prendere copia di tutti gli atti d’indagine. Voglio leggere la relazione di polizia domani stesso. Voglio capire chi mi ha calunniato. Voglio che prepari un ricorso contro la misura cautelare entro tre giorni da oggi. Ogni giorno che passerò in carcere sarà un macigno sulla coscienza di chi mi ha tradito!». Dovette intravedere nel mio sguardo un’ombra di sbigottimento e mi sussurrò all’orecchio. «Mi hanno incastrato gli egiziani, mi devi credere. Ho bisogno della tua fiducia più totale. Ti ricordi di Mohammed Faruk? Deve esserci lui dietro a questa storia». Afferrò un foglio ed appuntò ciò che avrei dovuto dire alla stampa, parola per parola, in caso qualche giornalista si fosse presentato in studio. Intanto il secondo agente, col naso appuntito di un segugio, ci volteggiava attorno, passando in rassegna, foglio per foglio, le pratiche che avevo raccolto sulla mia scrivania.
Dalla porta della stanza il presidente dell’ordine degli avvocati, che era amico fraterno dello zio, osservava la scena con costernazione.
Al momento di consegnare la procura allo zio per la firma, fui preso da un senso di inadeguatezza. Abbassai lo sguardo sulle mie dita, adagiate sulla tastiera del pc, e vidi che tremavano. Allora accostai la mia bocca all’orecchio dello zio. «Davvero vuoi essere difeso da me in una faccenda tanto grossa? Pensi che sarò all’altezza? Perché non nomini il presidente dell’ordine? E’ senz’altro più qualificato di me».
Lo zio mi afferrò la spalla destra e la strinse in una morsa furente. «Non ho bisogno di un avvocato, ma di un nipote che non metta in dubbio ogni singola parola che uscirà dalla bocca del suo adorato maestro. Sarò io il regista della mia difesa. Mi hai capito bene?».
Furono le ultime parole che sentii, prima che lo zio lasciasse lo studio, scortato dai due agenti, dopo avere afferrato dal ricco guardaroba il cappotto più elegante.
Subito dopo, anche il presidente dell’ordine si congedò, stringendomi la mano. «Telefonami più tardi. Conta su di me. Ti darò il mio aiuto».
Lo ringraziai, sollevato all’idea di avere al mio fianco un prezioso alleato.
Mi rifugiai nella mia stanza e constatai con orrore che le mani non erano l’unica parte del mio corpo che tremava. Anche le labbra non volevano saperne di stare incollate l’una all’altra.
Scostai le tendine e guardai la strada, ormai ricoperta da una sottile coltre di neve. Lo zio ed i due agenti erano scomparsi alla vista, forse avevano già varcato la fatale soglia del carcere.
Fu allora che mi costrinsi a sfogliare l’album dei miei ricordi con lo zio, in quello studio a due passi dal carcere, dal giorno in cui ero diventato avvocato, undici mesi prima. Tuttavia, forse a causa del mio umore cupissimo, mi vennero in mente solo fatti inquietanti, che mettevano in cattiva luce il mio maestro.
Mi ricordai di quando lo zio “liquidò” Franco, il nostro precedente praticante, in modo a dir poco brutale. Era un ragazzo molto preparato che aveva avuto l’unica colpa di trovare uno studio che gli offriva il doppio, permettendogli di andare a vivere da solo. Lo zio lo trattò come un traditore, scaraventando a terra una busta. Il poveretto aveva dovuto chinarsi a raccogliere le banconote del suo ultimo stipendio sparse sul parquet.
Mi venne in mente anche il sorriso sprezzante con cui lo zio rifiutò di assistere il mio vicino di casa, caduto in disgrazia per investimenti sbagliati. «Il gratuito patrocinio (2) è roba da perdenti. Seguilo tu, se vuoi, ma te lo sconsiglio. Tu sei mio nipote e devi metterti in testa di diventare come me, un vincente!».
E poi c’era stata quell’udienza nella causa di separazione di una signora russa dal marito, noto ristoratore milanese. La signora voleva accettare l’offerta di tremila euro al mese, per il mantenimento, ma zio Arturo si era opposto con veemenza. Aveva lasciato intendere all’avvocato di controparte, davanti alla stanza del giudice, di essere pronto a far intervenire la finanza per accertare gli stratosferici incassi in nero del ristorante ed anche le ripetute violazioni assicurative e previdenziali nell’assunzione irregolare dei dipendenti.
«La mia assistita può rovinare il marito, se lo vuole». Questo aveva urlato.
Ne era nato un vivacissimo battibecco, ma il marito della nostra cliente era apparso terrorizzato ed aveva accettato di migliorare l’offerta. Ricordai con un brivido sulla pelle le parole che lo zio mi disse al tavolino del bar, nell’atto di festeggiare il felice esito della causa con un brindisi. «I segreti del tuo avversario sono la tua forza. Se il tuo avversario non ha segreti, beh…allora inventane qualcuno!».
Venni distolto dai miei pensieri da Ottavio, il nostro nuovo praticante dopo il licenziamento di Marcello. Mi arrivò furtivamente alle spalle. «Avvocato, avrei bisogno della sua delega per ritirare le copie degli atti d’indagine contro suo zio». Gli firmai il foglio, senza guardarlo negli occhi. Non mi piaceva. Di solito aveva in faccia un sorriso tagliente, furbo. Si vedeva lontano un miglio che era ambizioso. Dal primo istante avevo avuto il sospetto che volesse prendere il mio posto, come braccio destro dell’avvocato Arturo Battaglia.
Il fascicolo con gli atti della procura arrivò sul mio tavolo quello stesso pomeriggio, così decisi di studiarlo subito, foglio per foglio.
L’indagine partiva dalle dichiarazione di due cittadini egiziani, ex clienti di studio, all’atto del loro arresto per spaccio. Avevano detto di avere messo in contatto lo zio con una banda di albanesi. Avrebbero anche assistito ad un paio di telefonate nel corso delle quali lo zio si sarebbe dichiarato disposto a custodire in studio, luogo ritenuto sicuro, un ingente quantitativo di cocaina, in cambio di denaro. Lo zio avrebbe anche garantito assistenza legale e qualche generica e non meglio specificata copertura ai membri della banda criminale.
Effettivamente il giorno dell’arresto, a seguito della perquisizione, erano stati sequestrati vari panetti di cocaina, per i quali si era ancora in attesa della relazione tossicologica.
Quando lasciai lo studio, col vento che mi congelava le orecchie, ero torturato da un interrogativo: “Possibile che mio zio Arturo abbia fatto tutto questo? Possibile che abbia gettato via la sua professionalità per diventare un vero e proprio criminale?”.
Il mattino seguente mi recai al colloquio, presso la sala giudici ed avvocati del carcere di San Vittore, deciso a vederci chiaro.
Mio zio arrivò nello stanzino degli incontri in giacca e cravatta. Era pettinato con cura ed aveva i lineamenti del volto distesi. Disse di avere dormito otto ore. Sorrideva come se io, lui e l’intero studio non avessimo niente da temere.
Io piegai il busto in avanti, cercando di ritagliare tra noi due una parentesi intima in quella drammatica situazione. «Zio, dimmi la verità…hai fatto davvero
tutto questo?».
Lui digrignò i denti e scosse la testa. «Domanda da dilettante. Allora in quest’anno con me non hai imparato proprio niente. All’avvocato non deve interessare la verità, ma solo di elaborare la migliore strategia difensiva. Ricorda che a volte conoscere verità dolorose può impedire quella piena lucidità mentale sulla quale, viceversa, un avvocato deve sempre poter contare».
«Avanti, zio. Io non sono solo il tuo avvocato. Sono anche tuo nipote».
Lui agitò davanti al mio viso il suo dito indice, come faceva sempre prima di lanciare i suoi anatemi giuridici. «Un avvocato, per essere perfetto, deve annientare l’uomo che c’è in lui…perché possa vivere solo il professionista, nel ruolo che il destino gli ha assegnato!».
Non ero d’accordo, proprio per niente, ma decisi di lasciar perdere. Estrassi dalla cartelletta la fotocopia del rogito della casa di mio zio, con annessa planimetria, ed un ricorso che intendevo depositare in Tribunale quella mattina stessa.
Lui intuì cosa c’era scritto e lanciò con furia quelle carte contro la parete. «Arresti domiciliari, è questo che hai pensato per me? Sostituire una cella con il mio appartamento? Mettere lo sguardo insopportabile di mia moglie al posto di quello dei secondini?».
Lo avevo deluso. Allargai le braccia. «Beh, che cosa intendi fare?».
Lui si piegò su di me, con aria di rimprovero. «Cosa si fa quando si difende uno che viene trovato in possesso di droga?».
«Si tenta di sostenere l’uso personale…».
«Esatto!». Battè un pugno sul tavolo. «Sto muovendo le mie pedine, qui dentro. Mi sto procurando una certificazione di tossicodipendenza. Elaborerò un programma di recupero, con l’aiuto delle strutture del carcere…».
«Ma non basta! Ti hanno sequestrato un sacco di cocaina, di certo incompatibile con l’uso personale. Hai qualche altra carta da giocare?».
Lui avvicinò il suo viso al mio, come volesse tormentarmi. «Conosco il pubblico ministero da venti anni. So come ragiona, conosco ogni idea che gli passa per la testa. Voglio che parli con lui e mi fai fissare un incontro confidenziale dopo l’interrogatorio. Farò nomi importanti, i capi della banda. E gli farò intercettare un carico molto grosso. Gli parlerò di un autogrill sulla A1, venerdì prossimo alle 17 in punto. Zac…metteranno le mani su un vero tesoro».
Spalancai gli occhi sbigottito. «Ma così dovrai ammettere il tuo coinvolgimento nei fatti».
Lui si abbandonò contro lo schienale della sedia, con un sorriso irridente. «Non necessariamente, bambino mio. Non c’è bisogno di mie dichiarazioni ufficiali, né che si faccia riferimento ad una fonte confidenziale. Lo faranno sembrare un normale controllo di polizia. Troveranno il carico, sequestreranno i cellulari, studieranno i tabulati e arriveranno ai promotori dell’affare. Gli aiuterò io, dietro le quinte, a risalire ai numeri giusti. Tutto chiaro?».
Abbassai lo sguardo e per una volta non mi vergognai della mia ingenuità.
Il sette gennaio, nella tarda mattinata, al ritorno in studio dopo le vacanze di Natale, trovai una sorpresa.
La squadra al completo era schierata ai due lati della porta d’ingresso. Mi accolsero tutti con un applauso, dalla segretaria Antonia ad Ottavio, dall’archivista alle tre stagiste.
Mio zio comparve per ultimo, spuntando dalla semioscurità del corridoio, come una star. Si unì all’applauso e mi strinse la mano. «Complimenti, ottimo lavoro». Mi guardò negli occhi con un sorriso compiaciuto. «Detenzione di droga per uso personale. Solo una sanzione amministrativa. Mi ritireranno la patente. Posso continuare a fare l’avvocato. Il presidente mi ha garantito che non avrò sanzioni disciplinari dall’ordine. I drogati non si puniscono ma si aiutano, ti pare?».
«Sono contento, zio. Io non ho fatto niente. Mi sono limitato ad eseguire le tue istruzioni, come sempre». Abbassai lo sguardo per l’imbarazzo. Quell’accoglienza mi era parsa una vera pagliacciata.
Sentii Arturo ridere. Avvertii una lieve pressione sulla mia spalla destra. Alzai lo sguardo e vidi che lo zio mi indicava agli altri componenti dello studio con un misto di fierezza e paternalismo. «Sapete perché mio nipote mi piace tanto? Perché è umile, come tutte le anime candide».
Ricordo che quel complimento non mi fece alcun effetto.
Lui si avviò verso la porta, infilando il cappotto e facendo segno a tutti di seguirlo. «Leo ci aspetta per un brindisi di festeggiamento. Ale, voglio che siedi accanto a me».
Sentii un conato di vomito opprimente salirmi lungo la gola. «Mi spiace, non sto bene. Vi aspetto qui».
Un minuto dopo incollai il viso alla finestra. Vidi mio zio attraversare la strada con passo regale ed il bavero del capotto rialzato, mentre la sua corte adorante ne seguiva la scia.
Mi chiesi che cosa ci facessi in quello studio e che fine avessero fatto i miei ideali di giustizia. Andai in bagno e mi guardai allo specchio. Il biondo ciuffo ribelle mi spioveva sull’occhio destro ad illuminare una faccia da bambino, come ai tempi del liceo. Non ero di certo un abile avvocato, forse non lo sarei mai stato, ma avevo sino ad allora conservato intatti i buoni principi inculcatimi da mia madre.
Un moto di ribellione mi spinse nel corridoio: “ora basta con zio Arturo. Basta con i suoi cinici principi, coi maniacali mantra da occultismo giuridico. Basta con la sicurezza del posto in studio e col diritto di sbagliare. E’ venuto il momento di mettermi in gioco!”.
Mi attendeva lo studio di un fascicolo: appropriazione indebita della cassa societaria da parte del suo amministratore (3). Un processo che avrei dovuto discutere l’indomani.
Quando tornai a fissare la strada deserta, oltre il vetro della finestra, seppi con certezza che la mia vita era finalmente giunta ad una svolta.
Digressioni sul reato
Prima di trattare dei reati citati nell’ultimo racconto, giova premettere, in modo davvero grossolano ed incompleto, qualche breve cenno di natura generale sul reato. Questa digressione potrà, almeno lo spero, interessare coloro che non praticano il mare tempestoso del processo penale. I colleghi penalisti mi perdoneranno per le inevitabili lacune.
Il reato (delitto o contravvenzione a seconda della sua gravità) è un fatto a struttura complessa, i cui elementi costitutivi più rilevanti sono i seguenti:
- Azione/omissione. Trattasi della condotta punibile, di natura positiva (azione) ovvero negativa (omissione) imputabile all’agente/omittente, ovvero al reo. Mentre l’azione è sempre punibile, l’omissione lo diventa solo laddove, a carico dell’omittente, sia configurabile un preciso dovere di evitare l’eventocostituente il momento consumativo del reato. Si pensi alla madre che, pur avendo un dovere di curare il figlioletto, lo lasci perire di stenti o di malattia, omettendo di nutrirlo ovvero di somministrargli le necessarie cure;
- L’Evento. L’evento coincide, nella maggior parte dei casi, col momento consumativo del reato e rappresenta la conseguenza penalmente rilevante dell’azione/omissione imputabile al reo. Generalmente l’evento coincide con il danno patito dalla vittima del reato (si pensi al decesso della vittima di un omicidio volontario o colposo) ma talvolta si concretizza nella semplice messa in pericolo del bene protetto dalla norma incriminatrice (si pensi al reato di omissione di soccorso, il cui evento consumativo coincide con la messa in pericolo dell’incolumità personale della vittima, abbandonata in stato di bisogno). In tale ultima ipotesi parleremo di reato di pericolo;
- Nesso eziologico o rapporto di causa/effetto che lega indissoluibilmente, dal punto di vista logico e cronologico, azione/omissione ed evento. Tale nesso di causalità (necessariamente sussistente affinché il fatto costituisca reato) è spezzato dall’intervento di una causa da sola sufficiente a cagionare l’evento. (Si pensi a colui che venga travolto ed ucciso da un’autovettura prima d’essere raggiunto da una pallottola);
- Elemento soggettivo o psicologico del reato. Tale elemento costitutivo è declinato sotto un triplice profilo:
- Il Dolo;
- La Colpa;
- La Preterintenzione.
Il dolo è integrato in caso di piena coscienza e volontà di cagionare l’evento in capo al reo. Per questo si dice che il reato doloso è: “secondo l’intenzione”. Il reato colposo, viceversa, è: “contro l’intenzione”. In tale ipotesi, in effetti, l’evento non voluto è cagionato dal reo con negligenza (mancato compimento di azioni necessarie ad evitare di provocare pericoli a terze persone) imprudenza (compimento di azioni e/o gesti avventati) imperizia (compimento di una attività senza il rispetto delle regole tecniche che ne governano l’esercizio. Si pensi alla responsabilità medica del chirurgo che dimentichi una garza nel ventre del paziente) o in violazione di leggi, regole e discipline (si pensi all’incidente provocato con violazione delle norme sulla circolazione stradale dei veicoli).
Il reato preterintenzionale è quello commesso “oltre l’intenzione”. Parliamo di fatti commessi volontariamente ma da cui consegue un evento lesivo più grave di quello effettivamente voluto.
Il principio generale del diritto penale è che si risponde del reato solo a titolo di dolo. A titolo colposo o preterintenzionale si è responsabili solo per omicidio o lesioni personali.
Dolo e colpa sono opposti inconciliabili, eppure nell’interspazio ideale che li separa proliferano due zone grigie e ibride: il dolo eventuale e la colpa cosciente.
Risponde di un reato a titolo di dolo, seppur nella forma attenuata del dolo eventuale, colui che non vuole l’evento cagionato, ma tuttavia corre scientemente il rischio della sua verificazione, visto addiruttura come probabile e non solo possibile. Si pensa a colui che guida bendato, per l’ebbrezza dell’emozione, e in tal modo investe un pedone, quando il rischio di verificazione dell’incidente è previsto come probabile e costituisce parte integrante della scommessa/sfida legata all’insano gioco.
Risponde del reato a titolo di colpa, seppur nella forma aggravata della colpa cosciente, colui che non vuole la verificazione dell’evento e tuttavia si rappresenta la possibilità della sua verificazione, pur contando, in virtù dell’improbabilità dell’accadimento non voluto o della propria abilità, di evitarne la verificazione. Si pensi al conducente di autovettura che impegni un vicolo contromano, coscio del pericolo che crea ma convinto che nel senso di marcia opposto sia improbabile la comparsa di veicoli.
Tolgono al fatto la veste di reato, scriminandolo, le cosiddette esimenti:
- il consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p. (ma l’esimente in parola è esclusa in caso di lesione personale ovvero omicidio poiché non è legittimo il consenso a sacrificare beni indisponibili e non negoziabili come la vita e la salute;
- l’esercizio del diritto o l’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.);
- la legittima difesa, ex art. 52 c.p;
- l’uso legittimo delle armi ex art. 53 c.p.;
- lo stato di necessità ex art. 54 c.p.
Anche se il fatto perpetrao dal reo costituisce reato non è imputabile il minore degli anni quattordici.
Non è imputabile l’infermo di mente che sia o risulti totalmente incapace di intendere e di volere.
L’infermo parziale di mente, quando la sua capacità d’intendere e volere è grandemente scemata ma non esclusa, gode di uno sconto di pena.
- 73 Testo unico stupefacenti (DPR 309/1990):
“Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000”.
Comma 1-bis, della detta norma: “Con le medesime pene di cui al comma 1 è punito chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:
- a) sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell’azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale;
- b) medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, che eccedono il quantitativo prescritto. In questa ultima ipotesi, le pene suddette sono diminuite da un terzo alla metà.
2. Chiunque, essendo munito dell’autorizzazione di cui all’articolo 17, illecitamente cede, mette o procura che altri metta in commercio le sostanze o le preparazioni indicate nelle tabelle I e II di cui all’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a ventidue anni e con la multa da euro 26.000 a euro 300.000.
2-bis. Le pene di cui al comma 2 si applicano anche nel caso di illecita produzione o commercializzazione delle sostanze chimiche di base e dei precursori di cui alle categorie 1, 2 e 3 dell’allegato I al presente testo unico, utilizzabili nella produzione clandestina delle sostanze stupefacenti o psicotrope previste nelle tabelle di cui all’articolo 14.
3. Le stesse pene si applicano a chiunque coltiva, produce o fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione.
4. Quando le condotte di cui al comma 1 riguardano i medicinali ricompresi nella tabella II, sezioni A, B, C e D, limitatamente a quelli indicati nel numero 3-bis) della lettera e) del comma 1 dell’articolo 14 e non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 17, si applicano le pene ivi stabilite, diminuite da un terzo alla metà.
5. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329”.
5-bis. Nell’ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui al presente articolo commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste. Con la sentenza il giudice incarica l’ufficio locale di esecuzione penale esterna di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L’ufficio riferisce periodicamente al giudice. In deroga a quanto disposto dal citato articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata. Esso può essere disposto anche nelle strutture private autorizzate ai sensi dell’articolo 116, previo consenso delle stesse. In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, in deroga a quanto previsto dal citato articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, su richiesta del pubblico ministero o d’ufficio, il giudice che procede, o quello dell’esecuzione, con le formalità di cui all’articolo 666 del codice di procedura penale, tenuto conto dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita. Avverso tale provvedimento di revoca è ammesso ricorso per cassazione, che non ha effetto sospensivo. Il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di due volte.
5-ter. La disposizione di cui al comma 5-bis si applica anche nell’ipotesi di reato diverso da quelli di cui al comma 5, commesso, per una sola volta, da persona tossicodipendente o da assuntore abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope e in relazione alla propria condizione di dipendenza o di assuntore abituale, per il quale il giudice infligga una pena non superiore ad un anno di detenzione, salvo che si tratti di reato previsto dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale o di reato contro la persona.
6. Se il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro, la pena è aumentata.
7. Le pene previste dai commi da 1 a 6 sono diminuite dalla metà a due terzi per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti.
7-bis. Nel caso di condanna o di applicazione di pena su richiesta delle parti, a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, è ordinata la confisca delle cose che ne sono il profitto o il prodotto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero quando essa non è possibile, fatta eccezione per il delitto di cui al comma 5, la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto”.
Reato di Spaccio di sostanze stupefacenti
Come può evincersi dal tenore letterale della norma succitata, la detenzione di sostanza stupefacente ai fini della cessione a terzi è punita con aspro rigore e pene assai severe, giustificate dal grave allarme sociale destato dal reato e dalle sue gravissime conseguenze sulla salute.
Si badi che integra il suddetto reato qualsivoglia cessione di sostanza stupefacente a terzi e a qualunque titolo, anche gratuito.
Tuttavia è scriminato e non costituisce reato, bensì unicamente illecito amministrativo, il consumo “esclusivamente” personale della sostanza stupefacente di cui si è detentori.
Per discriminare l’ipotesi, penalmente irrilevante, della detenzione di sostanza stupefacente per uso esclusivamente personale da quella, costituente il grave reato ut supra, di detenzione della medesima a fini di cessione a terzi, occorre anzitutto applicare un criterio quantitativo.
Ai sensi del decreto del Ministero della Salute pubblicato sulla Gazzetta ufficiale n. 95 il 24 aprile 2006, son stabiliti come limiti massimi (per l’uso personale):
- 250 milligrammi di principio attivo per l’eroina, corrispondenti a circa 1,7 grammi di sostanza lorda e a 10 dosi
- 750 milligrammi di principio attivo per la cocaina, circa 1,6 grammi lordi e 5 dosi;
- 500 milligrammi di principio attivo per la cannabis, marijuana, hashish che corrispondono a 5 grammi lordi e a 15-20 “spinelli”;
- 750 milligrammi (5 compresse) di principio attivo per MDMA (l’ecstasy);
- 500 milligrammi (5 compresse) di principio attivo per l’anfetamina;
- 0,150 milligrammi di principio attivo, cioè 3 “francobolli” per Lsd.
In breve, si può presumere che colui che venga colto in possesso di tali sostanze stupefacenti, entro i suddetti limiti quantitativi, utilizzi la droga a fini di uso personale. Il fatto, pertanto, non ricadrà nell’area dell’operatività dell’art. 73 D.P.R. 309/90, bensì potrà semmai integrare la violazione della fattispecie di cui all’art. 75 D.P.R. 309/90, che è stata derubricata ad illecito amministrativo.
Tuttavia il mero dato matematico del quantitativo di sostanza stupefacente rinvenuta in possesso dell’indagato/imputato potrebbe rivelarsi insufficiente a dedurre la destinazione finale al consumo o alla cessione a terzi della sostanza medesima. La giurisprudenza, in effetti, invita a parametrare la rilevanza penale della condotta altresì sull’esistenza di ulteriori indici rivelatori. Secondo Cassazione penale n. 7578/2019: “Il superamento del limite quantitativo fissato rappresenta solo uno dei parametri normativi rilevanti ai fini della sussistenza del reato, e l’esclusione della destinazione della droga ad un uso strettamente personale ben può essere ritenuta dal giudice anche in forza di ulteriori circostanze”.
Quali mai potranno essere le ulteriori circostanze sulla scorta delle quali dedurre che la sostanza illecita è destinata alla cessione a terzi e non già all’uso personale? (La seguente casistica è rassegnata senza pretesa alcuna di completezza ed a mero titolo esemplificativo):
- Il ritrovamento della sostanza già suddivisa in dosi preconfezionate;
- Il rinvenimento nel possesso dell’indagato di sostanza da taglio;
- Il rinvenimento in possesso dell’indagato di una quantità di denaro di cui il medesimo non sappia giustificare la provenienza (specie nel caso di soggetti privi di occupazione e dunque di fonti lecite di guadagno);
- La presenza sulla scena del crimine di bilancini di precisione;
- Il comportamento sospetto dell’indagato, che appaia intenzionato a darsi alla fuga o comunque a far perdere le proprie tracce, sottraendosi al controllo degli operanti intervenuti;
- La sussistenza a carico del prevenuto di precedenti condanne per spaccio.
Con la sentenza n. 4 del 28 Maggio 1997 le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno fatto definitiva chiarezza statuendo che il c.d. “consumo di gruppo” non costituisce reato, in quanto espressione di uso personale, seppur collettivo, di sostanza stupefacente. Con il termine consumo di gruppo s’intende il mandato ad acquistare sostanza stupefacente rilasciato da una pluralità di persone ad un singolo soggetto, membro del gruppo medesimo, affinché costui acquisti, con divisione tra tutti del relativo costo, sostanza stupefacente al solo fine di addivenire ad un uso privato collettivo, con esclusione di ogni profilo di cessione a terzi.
Le asprezze sanzionatorie della norma in esame sono stemperate dall’ipotesi residuale, contemplata dal quinto comma della norma incriminatrice, che prevede, in caso di fatti di minore gravità, un rilevante sconto di pena (da sei mesi a quattro anni di pena detentiva e da 1.032 a 10.329 euro di multa).
La qualificazione del fatto ai sensi del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, non può essere operata sulla base del solo parametro quantitativo, desunto dal dato statistico relativo alle pronunce rese in un determinato ufficio giudiziario che hanno riconosciuto la minore gravità del fatto, posto che, per l’accertamento della lieve entità, si deve far riferimento all’apprezzamento complessivo degli indici che la norma richiama.
L’ipotesi di cosiddetto piccolo spaccio si caratterizza per una complessiva minore portata dell’attività dello spacciatore e dei suoi eventuali complici, con una ridotta circolazione di merce e di denaro nonché di guadagni limitati e che ricomprende anche la detenzione di una provvista per la vendita che, comunque, non sia superiore – tenendo conto del valore e della tipologia della sostanza stupefacente – a dosi conteggiate a “decine”.
L’inquadramento della fattispecie nel reato di detenzione ai fini di spaccio cd. di lieve entità può essere tratta da qualsiasi elemento o dato probatorio che – con rigore, univocità e certezza – consenta di inferirne la sussistenza attraverso un procedimento logico adeguatamente fondato su corrette massime di esperienza. (V. Canestrini Lex).
L’avvocato incaricato di assistere in giudizio persona indagata/imputata ex art. 73 DPR 309/1990 avrà cura di esaminare i seguenti profili, elencati in ordine logico e di importanza;
- L’effettiva sussistenza, a carico dell’assistito, di prova di un suo coinvolgimento nei fatti oggetto d’imputazione oltre la fatidica soglia del ragionevole dubbio (come per ogni fattispecie criminosa);
- La sostenibilità della tesi difensiva della destinazione della sostanza stupefacente, rinvenuta ovvero comunque asseritamente attribuibile alla disponibilità del prevenuto, all’uso esclusivamente personale (anche nella prospettiva del c.d. consumo di gruppo) alla luce dei seguenti indici rivelatori:
- Modesta quantità della sostanza sottoposta a sequestro;
- Stato di tossicodipendenza del prevenuto. In tal caso è bene suggerire all’assistito di sottoporsi periodicamente alle analisi di urine e capello nonché di rivolgersi alle strutture specializzate per avviare programmi di recupero dalla tossicodipendenza (anche nella prospettiva malaugurata di un futuro eventuale affidamento terapeutico ex art. 94 DPR 309/90, per pene inferiori ai sei anni);
- Valutare l’eventuale configurabilità dell’ipotesi attenuata di cui al quinto comma dell’art. 73 DPR 309/90, alla luce:
- Dell’ incensuratezza dell’imputato, o quanto meno del difetto di precedenti condanne ovvero di carichi pendenti per lo stesso reato o per reati della stessa indole;
- Della giovane età del prevenuto (ovviamente se sussistente);
- Del minimo apporto causale dal medesimo fornito alla perpetrazione del reato (nel caso di mera manovalanza svolta al precipuo scopo di entrare in possesso di risorse per acquistare droga per sé stesso);
- Stato di tossicodipendenza del prevenuto;
- Minima quantità di sostanza sequestrata (con particolare riferimento al principio attivo in essa contenuto);
- Mancato rinvenimento, sulla persona o nel domicilio del prevenuto, di ingenti somme di denaro, di bilancini di precisione, di sostanze da taglio etc.
In ogni caso andrà valutata, a prescindere dalla configurabilità della citata ipotesi attenuata, l’applicabilità di una circostanza attenuante.
Circostanze Attenuanti
Per circostanza attenuante (o più brevemente, nel gergo forense, attenuante) in diritto penale si intende un elemento di fatto del quale il giudice può tener conto per diminuire la pena o per irrogare una pena di specie meno grave.
Attenuano il reato, ai sensi dell’art. 62 c.p., quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti:
1) l’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale;
2) l’aver agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui (si badi che non ogni stato d’ira determina l’applicazione dell’attenuante, bensì solo quello scatenato da un oggettivo torto subito);
3) l’avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’Autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale o delinquente per tendenza;
4) l’avere nei delitti contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l’avere agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità;
5) l’essere concorso a determinare l’evento, insieme con l’azione o l’omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa;
6) l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’articolo 56 c.p., adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato. L’espressione “efficacemente” porta a ritenere che il trattamento premiale sia riconosciuto non già a chiunque si sia impegnato in uno sforzo riparatore, bensì solo a coloro che abbiano portato a termine con successo tale sforzo, con un effettivo e concreto vantaggio per la vittima del reato. Quest’ultima circostanza attenuante deve spingere il difensore diligente ad esplorare, in caso di probabile o anche solo possibile condanna del proprio assistito, l’opportunità di consigliare all’imputato di risarcire il danno patito dalle parti offese, al fine di una remissione della querela ovvero dell’applicabilità dell’attenuante da ultimo citata.
Patrocinio a spese dello Stato (Gratuito Patrocinio)
Il patrocinio a spese dello Stato, comunemente ed impropriamente noto come “gratuito patrocinio”, è un istituto che consente ai soggetti meno abbienti di agire e difendersi in giudizio, a tutela dei propri diritti e, in caso di contenziosi amministrativi, interessi legittimi. In particolare, è assicurato il patrocinio (art. 74 DPR 115/2002 del 05.04.2002):
- nel processo civile, amministrativo, contabile, tributario e negli affari di volontaria giurisdizione, per la difesa del cittadino non abbiente quando le sue ragioni risultino non manifestamente infondate;
- nel processo penale per la difesa del cittadino non abbiente, indagato, imputato, condannato, persona offesa da reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile ovvero civilmente obbligato per la pena pecuniaria (senza alcuna previa valutazione di fondatezza delle proprie ragioni).
Le spese e competenze relative alle prestazioni rese dall’avvocato di persona ammessa al detto beneficio sono a carico dello Stato (da qui l’improprietà del termine: patrocinio gratuito). Pertanto, il difensore non riceve il compenso dal cliente – che non avrebbe le possibilità economiche per remunerarlo – ma dallo Stato (in particolare dal Ministero della giustizia). Il legale, una volta ottenuto il beneficio in favore del cliente, non può chiedere al medesimo nè compensi né rimborsi; infatti, ogni patto contrario è nullo e la violazione del divieto costituisce grave illecito disciplinare professionale (art. 85 c. 3 DPR 115/2002 e art. 29 c. 8 Codice deontologico forense).
Il cittadino (o lo straniero) in ristrettezze economiche può richiedere l’ammissione al patrocinio a spese dello stato:
- per difendersi (ad esempio, nel caso in cui sia convenuto in giudizio da altri),
- per agire (ad esempio, per tutelare un suo diritto o interesse legittimo),
- in ogni stato e grado del processo.
Invece, se il beneficiario è soccombente (ossia perde la causa civile), non può utilizzare il beneficio per proporre l’impugnazione della sentenza sfavorevole (in questo caso dovrà formulare nuova domanda di accesso al beneficio per coltivare l’impugnazione, la quale sarà accolta solo in presenza di una valutazione di sommaria fondatezza dell’impugnazione). In caso di soccombenza integrale in giudizio civile il beneficio può anche essere revocato dal giudice con la sentenza che definisce la causa.
Quindi, per godere del patrocinio a spese dello stato, occorre esservi preventivamente ammessi.
La legge citata prescrive i requisiti necessari per l’accesso al beneficio. Nel caso di giudizio civile, tributario o amministrativo (ma non in sede penale) tra i requisiti spicca la necessità che le ragioni fatte valere dalla parte richiedente non siano manifestamente infondate.
In altre parole, in sede giurisdizionale di natura non penale, è negato il diritto all’ottenimento del patrocinio a spese dello stato allorché le ragioni formulate dal richiedente, nel corpo della domanda, siano o comunque appaiano prima facie pretestuose. Il motivo della sussistenza di tale causa ostativa è intuibile: le spese del patrocinio sono a carico della collettività, quindi, è possibile accedervi solo ove vi sia davvero necessità ovvero un interesse apprezzabile e meritevole di tutela. Prima di analizzare l’istituto del patrocinio a spese dello stato, ricordiamo la differenza rispetto alla difesa d’ufficio con cui spesso è confuso.
La difesa d’ufficio è un istituto previsto in materia penale (o nei procedimenti davanti al tribunale dei minorenni), a garanzia del pieno diritto alla tutela giudiziaria. La sua finalità consiste nel garantire la difesa a ciascun soggetto, anche a colui che sia sprovvisto di un difensore di fiducia. Pertanto, nel caso in cui un individuo si trovi coinvolto in un procedimento penale e sia privo di difensore (ad esempio, perché il difensore ha dismesso il mandato o non l’ha accettato, ovvero infine è impossibilitato a svolgerlo), avrà luogo ad opera della autorità giudiziaria la nomina di un difensore d’ufficio, nel pieno rispetto del dettato costituzionale circa l’inviolabilità del diritto alla tutela in giudizio (con particolare riferimento alla sfera penale).
La linea di demarcazione fondamentale dei due istituti sta nel fatto che le spese della difesa d’ufficio sono a carico della parte, salvo che (per l’appunto) sussistano i requisiti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
Cosa significa?
Il difensore d’ufficio viene remunerato dal cliente. Pertanto l’avvocato che non abbia riccevuto il compenso richiesto potrà agire giudizialmente nei confronti del proprio assistito, ad esempio depositando ricorso per decreto ingiuntivo. Solo nell’ipotesi in cui quest’ultimo non goda di un reddito sufficiente, ossia possieda i requisiti che vedremo nel dettaglio, potrà chiedere di essere ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello stato e, in caso di accoglimento della richiesta suddetta, il suo difensore sarà remunerato dallo Stato (con fondi stanziati sul capitolato di spesa del Ministero della Giustizia).
L’istituto del patrocinio a spese dello stato rappresenta una delle provvidenze riconosciute dallo Stato ai propri cittadini in omaggio al principio, latamente ugualitario, sancito dall’art. 3 della Costituzione. Esso, tuttavia, trova il proprio fondamento nell’art. 24 c. 3 della Costituzione. La norma, infatti, stabilisce che siano assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
Tale diritto è previsto anche nella Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo (CEDU) che all’art. 6 c. 3 lett. C, dispone che: «ogni accusato ha diritto di difendersi da sé o avere l’assistenza di un difensore di propria scelta e, se non ha i mezzi per ricompensare un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio quando lo esigano gli interessi della giustizia».
La normativa di riferimento è contenuta nel Testo Unico in materia di spese di giustizia (DPR 115/2002).
Chi ha diritto al patrocinio a spese dello stato?
- i cittadini italiani (anche liberi professionisti o titolari di partita IVA),
- i cittadini stranieri o gli apolidi, purché si trovino regolarmente sul territorio nazionale;
- gli enti senza scopo di lucro o le associazioni.
Al contrario, sono esclusi dal beneficio (art. 76 c. 4 bis DPR 115/2002) i soggetti già condannati con sentenza definitiva per:
- associazione di tipo mafioso, anche operanti all’estero (art. 416 bis c.p.);
- reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p (partecipazione ad una associazione per delinquere);
- reati commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso (ex art. 416 bis c.p.);
- associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291 quater DPR 43/1973);
- produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope e associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (artt. 73 e 74 c. 1 DPR 309/1990).
Per essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, il richiedente deve essere titolare di un reddito annuo imponibile, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore a € 11.746,68.
Tale importo viene aggiornato ogni due anni.
Ai fini della determinazione dei limiti di reddito, si tiene conto anche dei redditi:
- che per legge sono esenti dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), come ad esempio la pensione d’invalidità, l’indennità di accompagnamento et cetera;
- che sono soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ad esempio, interessi sui conti correnti;
- che sono soggetti ad imposta sostitutiva (art. 76 c. 3 DPR 115/2002).
Il richiedente deve allegare l’ultima dichiarazione dei redditi, ovvero, in mancanza, un’autocertificazione sull’entità del proprio reddito. Con la sottoscrizione di tale autocertificazione il richiedente assume un obbligo di dire la verità, rilevante anche a fini penalistici, costituendo reato la falsa attestazione.
Il richiedente straniero (extracomunitario), per i redditi prodotti all’estero, deve allegare una certificazione dell’autorità consolare competente che attesti la veridicità di quanto dichiarato nella domanda. Qualora l’autorità consolare non rilasci la certificazione richiesta, a corredo della domanda dovrà essere allegata un’autocertificazione sui redditi prodotti nel paese d’origine.
Tuttavia, qualora il richiedente sia inserito in uno stato di famiglia comprendente altre persone con lui conviventi, ai fini della valutazione dei requisiti di reddito per l’ammissione al beneficio si dovrà calcolare l’importo relativo alla somma dei redditi dei singoli conviventi. Il tetto massimo (pari ad € 11.746,68.=) sarà elevato di mille euro per ogni familiare convivente (ad esempio, se sullo stato di famiglia vi sono due persone, una oltre il richiedente, occorrerà che la somma dei loro redditi non sia superiore ad € 12.746,68.=; se le persone sono tre, due oltre il richiedente, occorrerà che la somma dei loro redditi non sia superiore ad € 13.746,68.= etc.).
Ai fini della ammissione al patrocinio a spese dello stato, nella determinazione del reddito personale di uno dei due coniugi deve essere considerato anche il reddito di cittadinanza per la quota del 50%, sul presupposto che nel nucleo familiare, oltre ai due coniugi, non ci siano altri componenti maggiorenni.
Con riferimento al processo civile, tributario e di volontaria giurisdizione, la domanda va presentata al consiglio dell’ordine degli avvocati del luogo ove la causa si svolge o si svolgerà.
Con riferimento al processo penale la domanda va presentata al giudice che procede. Per quanto concerne la giurisdizione amministrativa la domanda va depositata presso l’apposita commissione istituita presso ogni singola autorità giudiziaria amministrativa (TAR; Consiglio di Stato).
Il provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello stato può sempre essere revocato dal Giudice ove emergano circostanze che portino a ritenere che il reddito del richiedente sia superiore a quello attestato o autocerificato o che il suo stato di famiglia effettivo sia diverso da quello allegato alla domanda.
Nei procedimenti penali si assiste frequentemente al rigetto della domanda presentata dall’imputato che autocertifichi la mancanza di reddito, ove appaia presumibile che egli viva con proventi di reato (prassi diffusa, ma discutibile e spesso censurabile poiché frutto di apprezzamenti soggettivi e presuntivi del Giudice). Si assiste parimenti a revoche dell’ammissione a seguito dell’esame dell’imputato in aula ove costui, dopo avere autocertificato di non possedere reddito, dichiari, rispondendo alle domande del giudice sulle sue condizioni di vita, di avere svolto prestazioni di lavoro.
Conclusa ciascuna fase di attività, in difetto di revoca del beneficio, il difensore della persona ammessa al patrocinio a spese dello stato presenterà al Giudice competente istanza di liquidazione dei compensi, allegando una nota spese ed il decreto di ammissione al beneficio. Il Giudice liquiderà i compensi e tale provvedimento, a seguito di deposito presso gli uffici del Modello 12 competente, sarà pagato, previa fatturazione, a cura del Ministero della Giustizia.
L’avvocato diligente, all’atto dell’assunzione dell’incarico, avrà cura d’informare il cliente del diritto, previa verifica della sussistenza delle condizioni ex lege, di richiedere il patrocinio a spese dello stato. Qualora l’assistito versi nelle condizioni di ottenere il beneficio, l’avvocato avrà cura di aiutarlo a redigere l’istanza e a patrocinarlo ex DPR 115/2002. In caso contrario, ove non intenda patrocinare a spese dello stato, avrà cura di consigliare all’assistito di rivolgersi all’ordine degli avvocati competente per ottenere la visione delle liste degli avvocati iscritti al patrocinio a spese dello stato.
L’avvocato avrà cura di svolgere la predetta attività preliminare a titolo gratuito. Avrà altresì cura di avvertire il cliente della responsabilità che assume autocerificando un reddito pari a zero o comunque inferiore al limite minimo ut supra, posto che una falsa certificazione comporta una sanzione penale.
Appropriazione Indebita
Nel diritto penale italiano, il reato di appropriazione indebita è ricompreso nella categoria dei “delitti contro il patrimonio”. Il reato in parola viene così definito dall’art. 646 del Codice Penale:
«Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da € 1.000 a 3.000. Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata».
Il reato di appropriazione indebita si differenza dal delitto di furto, col quale può facilmente essere confuso.
Infatti, se la norma incriminatrice, nel caso del furto, garantisce la proprietà attraverso la tutela del possesso, viceversa l’art. 646 c.p. tutela e protegge i diritti del proprietario quando una violazione del possesso non vi è stata, perché il bene è già nella sfera possessoria del reo e questo consente al reo di far la cosa propria senza sottrarla. Il bene giuridico tutelato, un tempo individuato nel generico diritto di proprietà, è oggi identificato nell’interesse di un soggetto diverso dall’autore del fatto, al rispetto dell’originario vincolo di destinazione della cosa, ove però l’origine del vincolo sembra scaturire da qualsiasi fonte, pubblica o privata.
A mero titolo esemplificativo parleremo di appropriazione indebita e non di furto: in caso di mobilio asportato dal conduttore fuori dall’abitazione oggetto di locazione; in caso di distrazione della cassa da parte del funzionario di banca, dell’amministratore delegato di una società ovvero dell’amministratore condominiale (costoro non sono alieni al bene sottratto bensì, viceversa, hanno già un potere di fatto sulla cosa oggetto dell’attività predatoria).
L’ordinamento giuridico italiano prevede il perseguimento di questo reato solo in presenza di una querela della parte offesa (procedibilità a querela).
Con l’emanazione del decreto legislativo n. 36 del 10 aprile 2018, è stata abrogata la procedibilità d’ufficio in caso di deposito necessario e/o quando il reato è aggravato ai sensi del n. 11 dell’art. 61 c.p